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1 – Voghera Fotografia 2022. Il ritorno del reportage

1 – Voghera Fotografia 2022. Il ritorno del reportage




Pier Luigi Feltri

Per tre finesettimana, da sabato 10 a domenica 25 settembre, avrà luogo la terza edizione di “Voghera Fotografia”, manifestazione organizzata dall’associazione Spazio 53 in collaborazione con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Voghera.
La rassegna di quest’anno, che arriva dopo due anni di pausa forzata a causa dalla pandemia, prende spunto dal centenario della nascita di Pier Paolo Pasolini e si propone di celebrarne la figura, mostrando la sua visione del mondo attraverso lo sguardo di alcuni fotografi che hanno seguito percorsi attinenti alle tematiche di suo interesse, sulle vie da lui stesso intraprese. Strade, città, mondi e illusioni che il poeta e regista ha descritto e valorizzato in alcune delle sue opere più riuscite. Luoghi che Pasolini ha saputo portare all’attenzione internazionale (si pensi allo Yemen e alla sua capitale). E avrebbe continuato la sua missione di intellettuale, se la sua vita non si fosse interrotta tragicamente in quella che De André definì “una notte sbagliata”.

“Sulle orme di Pasolini – Percorsi, Popoli, Cronaca” è il titolo di questa edizione di “Voghera Fotografia”. Conterrà diversi percorsi espositivi, allocati presso il piano nobile del Castello Visconteo.
«Pier Paolo Pasolini ha insegnato a tutti cosa significhi lottare per difendere le proprie idee», ha dichiarato Arnaldo Calanca, presidente di Spazio 53. «Abbiamo anche noi voluto omaggiarlo nel centenario della sua nascita rivolgendoci a grandi autori che lo hanno conosciuto personalmente, e hanno saputo cogliere la poetica di un artista che non ha mai smesso di raccontare la realtà».
Realtà rappresentata sia sotto un profilo biografico – ed ecco le immagini del cineasta alle prese con i proprio film o nella vita quotidiana –, sia dal punto di vista della ricerca tematica, con la presenza in mostra di alcuni reportage ricollegati all’esperienza pasoliniana.
È anche una risposta, quella di Spazio 53, alla crisi del genere “reportage”, reso ormai rarissimo, compresso com’è nelle rapide date di scadenza con le quali vengono etichettati fatti e opinioni nell’epoca dei social network. Portare in città alcuni esempi di reportage fotogiornalistico può servire anche a far conoscere un sistema di lavoro che le nuove generazioni non hanno più modo di acquisire nel loro bagaglio culturale.
«Lo scopo di Spazio 53 è sempre quello di avvicinare più persone possibili alla fotografia», spiega ancora Calanca. «Potevamo scegliere diversi argomenti per le mostre di quest’anno, ma abbiamo optato per il reportage classico, che oggi non si vede più: può far incuriosire i giovani. Speriamo che questo nostro messaggio avvicini una categoria che, in senso assoluto, di solito non segue questo filone.»


Roberto Villa
Esfahan – Moschea del Venerdì – “Il fiore delle mille e una notte” – La stanza del Demone

Pier Paolo Pasolini e Barbara Grandi – 1973

 

Visioni d’Oriente

Il backstage realizzato da Roberto Villa sul set de “Il fiore delle mille e una notte” (1973) è l’oggetto della prima delle cinque mostre: “L’Oriente di Pier Paolo Pasolini”.
Villa è stato fra i primi in Italia a interessarsi al dibattito semiologico, in quegli anni in espansione, circa l’opportunità di applicare i canoni della linguistica strutturale alle più ampie manifestazioni simboliche della società, e in particolare al cinema. Lo si evince dalla pubblicazione sul tema che lo stesso Villa ha prodotto lo scorso anno per i caratteri di NFC Edizioni, nella quale riporta:

Pier Paolo sosteneva che il Cinema è ‘il linguaggio della realtà’ e io che è ‘solo un linguaggio’. (…) Ho colto PPP con una mano sulla cinecamera, vicino c’era un attore con il ciak, me lo sono fatto dare e l’ho porto a PPP dicendogli: Pier Paolo prendi, ti faccio un ritratto. Mentre lo prendeva mi ha detto: ma è una finzione, al che ho risposto: Sì, anche il cinema è una finzione. Lui, memore del nostro dibattito, ha sorriso ed io ho scattato.

Villa, che all’epoca aveva trentasei anni, era dotato già allora di una cultura eclettica. Pasolini lo invitò personalmente sul set, probabilmente conscio anche dell’occhio clinico che un fotografo esperto di produzioni audiovisive avrebbe mantenuto nel suo scrutare. Nei suoi tre mesi e mezzo di scatti sul set in Medio Oriente, Villa ebbe modo così di realizzare un ampio ed analitico reportage fotografico, sul set e fuori del set, immortalando tanto il metodo visionario del cinema pasoliniano, quanto il contesto antropologico e sociologico delle riprese, con le varie popolazioni delle diciotto località che sono state le “locations” del film, dalla Persia di Reza Pahlavi fino allo Yemen.
La mostra proporrà quaranta fotografie, conservate nel fondo che l’autore donò nel 2008 alla Cineteca di Bologna che ne cura oggi la conservazione. Alcune immagini della raccolta furono esposte anche al MoMA di New York durante la retrospettiva pasoliniana svoltasi a cavallo fra il 2012 e il 2013.


Graziano Perotti
Yemen – Sana’a
1997

 

Yemen. “Il paese più bello del mondo”

Nelle sue visite in Yemen Pasolini si legò molto a quel paese e alle sue vestigia. Rende bene l’idea di questo rapporto il fatto che, l’ultimo giorno del viaggio che lo portò laggiù nel 1970, il regista lo dedicò a girare un documentario-appello destinato all’Unesco affinché si provvedesse a salvare e valorizzare l’importante patrimonio architettonico rappresentato dalle mura di Sana’a. Appello poi raccolto, dato che nel 1986, anche grazie alla preziosa testimonianza artistica del cineasta bolognese, la città vecchia della capitale yemenita fu dichiarata Patrimonio Mondiale dell’Umanità.
A distanza di oltre cinquant’anni, tuttavia, lo Yemen è ancora un paese poco noto agli occidentali. Il fotografo Graziano Perotti vi si è recato venticinque anni fa per realizzare un vero e proprio reportage sociale: piccole e grandi storie di umanità e di luoghi, che non si limitano tuttavia a descrivere in modo asettico la realtà della nazione, ma restituiscono dignità ad ogni singolo soggetto fotografato, nonché allo spazio architettonico o ambientale, in un contesto dipinto dalle alterne sfumature di terrore e speranza, sofferenza e compassione. Quegli stessi fattori che impressionarono il cineasta quasi trent’anni prima.
La mostra che ne è nata, “Yemen 1997”, è dunque anche un omaggio implicito alla visione di Pasolini: lui stesso scriveva che “la sola ricchezza dello Yemen è la sua bellezza”, per l’amore che lo legava a questa terra ricca di contrasti forti che ha raccontato come forse nessun altro in Occidente. Saranno esposte al Castello di Voghera quaranta immagini, in bianco e nero e a colori.
L’autore, Graziano Perotti, è nato a Pavia nel 1954. In veste di fotoreporter ha pubblicato oltre 200 reportage di viaggio, cultura e sociali sui più importanti magazine. Pluripremiato in tutto il mondo, attualmente lavora come freelance e si dedica all’attività didattica.


Daniele Vita
Bagnanti – Carla allo scoglio “La testa del leone”
2020

 

Giovani dai capelli “irti e svolazzanti” specchio della società

Nel prepararsi alle riprese de “Il fiore delle Mille e una notte” Pasolini visitò, oltre allo Yemen e ad alcuni paesi africani, anche la Sicilia; passò in particolare per la città di Catania, sempre alla ricerca di attori “di strada” e di scorci di suo interesse. Il filo conduttore di questa esperienza di viaggio fu raccolto in un diario, pubblicato sulla rivista “Playboy” nel 1973, dove l’autore descrisse la comune tendenza di quegli anni alla cancellazione delle culture arcaiche, dei relativi retaggi culturali e folcloristici, visti come qualcosa di cui vergognarsi, a favore dei nuovi modelli di modernizzazione imposti dalla cultura occidentale, volta all’omologazione della mentalità, che peraltro si traslano chiaramente anche sulle impronte urbanistiche e architettoniche. Il “nuovo” che proviene dal centro si diffonde alle periferie, che non sono più in grado di contrastare la nuova egemonia culturale con l’evoluzione di modelli culturali basati sulle proprie radici. In questo senso, in particolare, Catania viene descritta come una città “in frantumi”, e sintomo di questa decadenza è ravvisata dallo stesso Pasolini nella condizione dei giovani in città.

Giovani impazziti, o ebeti o nevrotici – scrive – vagano per le strade di Catania coi capelli irti o svolazzanti, le sagome deformate da calzoni che stanno bene solo agli americani: vagano con aria soddisfatta, provocatoria, come se fossero depositari d’un nuovo sapere. Sono, in realtà, paghi dell’imitazione perfetta del modello di un’altra cultura. Hanno perso la propria morale, e la loro arcaica ferocia si manifesta senza forma.

Ma «il modello del centro – propagato dalla televisione – non è raggiungibile da un ragazzo siciliano che vede così aumentare il suo tratto di inferiorità»: gli esiti portano così la gioventù a scadere «nell’ignoranza e nella malattia sino all’ebetudine».
Nel 2020 il fotografo Daniele Vita è rimasto a Catania per un’estate a documentare la vita di un gruppo di adolescenti fra gli 11 e i 15 anni. Ancora oggi, quarant’anni dopo Pasolini, giovani cresciuti troppo in fretta si conformano ai modelli che la società mette loro a disposizione. Certo, la televisione è stata soppiantata dai social network e i capelli irti hanno lasciato il posto ai tagli propagandati dai calciatori. Ma l’umanità è sempre quella, con gli stessi sogni di ascesa, con negli occhi le stesse aspettative di un generico futuro migliore. In questo contesto il fotografo documenta, senza scadere nel giudizio morale, momenti di spensieratezza come i bagni sugli scogli e i ritrovi al campo di basket, che vanno di pari passo con la scoperta dell’amore, del sesso, delle sigarette, degli spinelli. Le immagini sono rese più dense dal fatto che siano state scattate nel corso del 2020, in quella prima estate dopo il terribile – in particolare per i giovani di quell’età – lockdown pandemico. Se c’è una differenza fra i ragazzi osservati da Pasolini e quelli immortalati da Vita, essa sta proprio nell’esigenza di recuperare quanto prima il tempo perduto che le chiusure forzate hanno instillato nei secondi; e di farlo socializzando con i propri simili.
Daniele Vita è un fotografo che affonda le proprie radici negli studi antropologici. Lavora come freelance, collaborando con magazine italiani e stranieri, fondazioni e cooperative sociali. È stato finalista in numerosi concorsi nazionali e internazionali. Ha al suo attivo tre pubblicazioni: “Che qualcuno ascolti che qualcuno sia” del 2009, “Estremo Umano” del 2018 e “La Settimana Santa in Sicilia” del 2019.


Ivo Saglietti
Mar Musa
2004

 

Laggiù, nel deserto, un luogo d’incontro dei popoli

Il Pasolini cittadino del mondo, con il suo sguardo inquieto e l’esigenza di studiare con caratteri maniacali i dettagli dei propri lavori, visitò a più riprese anche la Siria; molto noti nella sua biografia sono il viaggio del 1963 alla ricerca di ispirazioni per il “Vangelo”, e quello del 1968 per girare “Medea”. Lo spirito di quelle esperienze di incontro con culture così diverse e per molti versi misconosciute rivive nell’esposizione delle immagini di Ivo Saglietti, “Sotto la tenda di Abramo”. Si tratta di quaranta fotografie realizzate nel 2004, quando l’autore si era recato nel deserto a nord di Damasco su suggerimento del gesuita Padre Paolo Dell’Oglio (poi rapito nel 2013 da milizie islamiste e da allora disperso). L’antico monastero siro-antiocheo di Deir Mar Musa el-Habasci (San Mosè l’Abissino), luogo di ospitalità abbarbicato sulle montagne della Siria, fu immortalato in quell’occasione soprattutto come luogo di incontro fra il mondo cristiano e quello musulmano. È questo in fondo il significato della “tenda di Abramo”, una tenda aperta su tutti i lati a qualunque provenienza. Abramo è del resto un patriarca per gli ebrei e i cristiani, nonché un profeta per gli islamici.
Le immagini prodotte da Saglietti raccontano in effetti anche di più, nel loro dialogo con genti di provenienza ben più varia della pur complessa dicotomia che oppone e insieme riunisce Cristianesimo e Islamismo. È “un discorso aperto con i popoli e per i popoli”.
Dopo dieci anni di chiusura il monastero (che nel 2010 era arrivato ad accogliere 30mila visitatori) ha riaperto al pubblico nel giugno di quest’anno e si propone di proseguire la sua missione, così come era stata tracciata da Padre Dell’Acqua e anche immortalata nel reportage del 2004.
Saglietti è nato a Toulon, nel Varo, nel 1948. Dopo un esordio nel mondo del cinema ha iniziato ad occuparsi di fotografia dal 1975. Nella sua lunga carriera ha vinto tre premi World Press Photo.


Pier Paolo Pasolini
Roma, 1960
Archivio Farabola

 

Pier Paolo Pasolini nell’Archivio Farabola

Il ciclo pasoliniano in “Voghera Fotografia” si conclude con una raccolta di 30 immagini provenienti dall’Archivio Farabola, una delle più grandi raccolte in Italia, che deve il proprio nome e le proprie radici a quel Tullio Farabola che è stato fra i più noti e influenti fotogiornalisti del Belpaese. C’è un Pier Paolo Pasolini a tutto tondo nella selezione di questa mostra; si va dalle apparizioni pubbliche alla vita quotidiana, passando per l’attività professionale con i momenti di backstage della sua produzione cinematografica. C’è anche un Pasolini nelle vesti di calciatore (ruolo: ala destra).

Al di fuori dell’itinerario tematico principale, il festival iriense potrà contare anche sulle mostre di Paola Rizzi e di Beppe Bolchi. “L.U.L.U Ora che so. Now I know” mette in mostra la visione artistica di Paola Rizzi sul tema del cambiamento, inserita nella serie “La coscienza della natura”. Cinque donne di età ed etnie differenti, viste mediante altrettanti trittici come “madonne” alle quali viene affidata la speranza in un cambiamento, in una presa di coscienza globale che non può prescindere dal dialogo con la natura.
“Città senza tempo” è la mostra di Beppe Bolchi. Contesti urbani a vario titolo significativi nella storia personale dell’autore, tuttavia depauperati dalla frenesia delle attività per le quali sono stati costruiti. Messa da parte la loro dimensione funzionale, le città vengono restituite all’osservatore nella loro purezza statica, nella bellezza oggettiva delle loro forme e delle loro armonie complessive. L’uomo è totalmente assente dagli scatti, riportati in un bianco e nero che ne rende ancora più straniante l’effetto desertico.
La tecnica fotografica a foro stenopeico utilizzata per queste fotografie si ricollega inoltre alla presenza nel Castello di Voghera della prima “camera obscura” stabile in Italia, realizzata nel 2019 dallo stesso Bolchi per Spazio 53 e appena ripristinata.
Il programma completo della manifestazione è consultabile sul sito web www.vogherafotografia.it dove sarà riportato anche l’elenco degli eventi collaterali che l’organizzazione proporrà a integrazione delle mostre.

Pier Luigi Feltri