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2 – Elogio della lentezza e del silenzio

Io sono sempre lo stesso, in fondo. Non vorrei mai il computer.

Sandro Bolchi

 

Nuccio Lodato
Soggettiva da una barca che naviga lentissima sul grande fiume durante tutti gli originali e a loro volta deliberatamente rallentati titoli di testa: per poi passare a una ricognizione analitica, senza parole, di ampie carrellate circolari rotanti, al rullo compassato e distante di tamburi, dei cadaveri disseminati in un bosco innevato, durante la tragica ritirata napoleonica in Russia nel 1812 (Il mulino del Po del ‘63). Le prime parole vi verranno pronunciate dal generale dei genieri Poitevin/Guido Lazzarini dopo oltre sette minuti.

In apertura dei Miserabili (1964), Jean Valjean/Moschin si aggira disperatamente, piano piano, per le povere stradine di Digne, alla vana ricerca di un soccorso, di un boccone e di un alloggio, incontrando un generale muro di estraneità, diffidenza e minaccia nella comune indigenza, fino a che si risolverà a bussare alla dimessa (“francescana”: oggi con più pieno senso!) porta del vescovo Myriel. Il tutto in eloquentissima espressività, conseguita con un rigoroso e mai contraddetto silenzio.
Un barcaiolo rema lentamente sul “ramo del lago di Como”, mentre la voce del narratore Sbragia legge con analoga cadenza le prime righe del romanzo, con un solo flash evocativo (“soldati spagnoli, che insegnavan la modestia alle fanciulle e alle donne del paese”…: I promessi sposi, 1967), ma anche qui i due bravi interromperanno la passeggiata col breviario di don Abbondio/Carraro, rivolgendogli la parola minacciosamente, solo al quarto minuto di svolgimento.

Quando, ne Le mie prigioni (1968) Silvio Pellico/Grassilli viene tradotto in gondola ai Piombi, si registrano ben 5’ (per l’esattezza …) di muto e pensoso avvicinamento, scanditi solo dai colpi del gondoliere che rema. E si potrebbe continuare. Che sia tutta una questione di ritmo, o più ancora e piuttosto di bianco e nero: di, ai nostri occhi “altamente definiti” odierni, sfocato e lattiginoso ampex? È la stessa accusa di “lentezza”, nel pubblico pregiudizio e nella mentalità conforme dei programmatori tv odierni, che ha portato alla damnatio memoriae dei capolavori didattico-televisivi di Rossellini: non soltanto dei supremi Atti degli Apostoli (1969) ed Età di Cosimo (1974), ma addirittura del tutt’altro che dilungato e analitico La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966). La coincidenza cronologica non è casuale, con il periodo del Mulino del Po e de I promessi sposi, dei Miserabili e de Le mie prigioni. La realtà è che in quell’ormai remoto quanto aureo decennio, prima quieto poi convulso, tra benessere, sollevazione e riflusso, Bolchi e Rossellini remavano nella medesima direzione, quasi presaghi della fine che avrebbe potuto fare mezzo secolo più tardi un popolo genialmente intraprendente, ma gravato da un deficit storico-culturale complessivo pesantissimo, del quale stiamo tuttora quotidianamente constatando (e pagando) le conseguenze.

Erano perfettamente consapevoli, con la lucidità istintiva sola dei grandi, che la battaglia decisiva si giocava sul fronte che contrappone istruzione ad analfabetismo, cultura ad ignoranza. Bolchi aveva allora risolto di spingere gli italiani alla lettura, con la sua sistematica, paziente e minuziosa rivisitazione dei classici; Rossellini di dare loro autoconsapevolezza raccontando via via la Storia, quella nostra e quella degli altri. Entrambi avevano individuato, per vie diverse – il primo condividendone le origini; l’altro convertendovisi una decina d’anni più tardi – nella televisione il mezzo ideale per giungere al contatto capillare con tutti.

Bolchi arriverà a fare cinema per proseguire con diverse e più aggiornate tecniche nel proprio discorso iniziale. Rossellini troverà nella produzione televisiva il mezzo per concretare percorsi produttivi che il circuito del cinema tradizionale non gli avrebbe più (neppure a lui!) assolutamente permesso. In qualche misura, possono persino dare l’idea di aver dovuto sconfinare per costrizione ciascuno nel campo dell’altro. In realtà gli obiettivi che si proponevano (Rossellini, più anziano di una o due generazioni, nella fase conclusiva della carriera; Bolchi per il suo intero arco, e quindi precedendolo) erano e restano visibilmente comuni. Potrebbe restare il rimpianto di non aver potuto vederlo, il nostro “concittadino per caso”, cimentarsi in un “vero” film per le allora fiorenti sale, anzi che limitarsi a utilizzare il mezzo pensando sempre in esclusiva al teleschermo come destinazione ultima del proprio lavoro.

Ma che a un certo punto Bolchi sia comunque passato, e con risultati straordinari (La coscienza di Zeno!) a fare film veri e propri, sia pure a solo terminale Rai, non lo si dice mai, confinandolo in eterno nella pretesa categoria riduttiva dei “registi televisivi”: sia pure il massimo tra loro. Che possiamo leggere, in parallelo, anche a confronto con un altro gigante dello spettacolo italiano nella seconda metà del secolo scorso, Giorgio Strehler. Non soltanto per l’accomunante rimpianto impossibile (se anche lui si fosse deciso a fare un film! Quei Mémoires goldoniani, sempre annunciati, e sceneggiati senza approdo finale…) ma per il comune primato dell’attenzione e dell’affezione ai “propri” attori. In più di un caso ma non a caso comuni: atteggiamento che li accomuna all’ultimo e più giovane gigante dell’epoca, Luca Ronconi, per buone ragioni a propria volta fedelissimo ai suoi interpreti.

“Vallone, Lazzarini, Moschin, Carraro, Ninchi, Pani, Merlini” sono alcuni dei nomi canonici che l’intervistatore Tabanelli sottoponeva a Bolchi, la cui risposta è illuminante:

Ero molto amante dei miei attori, tendevo a cambiare poco. Avevo una mia esclusiva, con alcuni ho addirittura girato l’80% dei miei film. Può aggiungere Randone, Grassilli e la Massari, coi quali ho girato gran parte dei miei lavori. Dovevano capirmi, sopportarmi, ero molto noioso con gli attori, quasi ossessivo, provavo tantissimo assieme a loro, li confessavo a parte dando ogni volta consigli e alla fine ottenevo sempre ciò che volevo. Per esempio, Randone lo provavo a tu per tu come in un confessionale. Con Lea Massari provavo a casa sua. Erano un po’ tutti attori teatrali molto semplici: un Carraro enfatico non si è mai visto in teatro. A teatro era ‘secco’, Giulia Lazzarini in teatro era ‘secca’, e io li prendevo così”.

Il possibile parallelismo con Strehler si materializza anche – oltre che nelle stature comparabili, rispetto a campi espressivi così radicalmente diversi – proprio nella comune centralità di definiti attori, da Bolchi amati perché “secchi”, e insieme, vedi un po’, icone portanti strehleriane come Carraro e la Lazzarini. Si osservi il quadro generale degli attori principali impiegati, dopo i fedelissimi “bolognesi” delle origini, come appunto Grassilli, che non ricordava mai le battute, rivela con affetto Bolchi, o Matteuzzi. Emerge proprio il folto e agguerrito manipolo degli “storici” di scuola Piccolo: addirittura il leggendario Arlecchino originario Marcello Moretti ne La vedova scaltra, e poi Alberici, De Toma, Pepe, Fanfani, Busoni, Dettori, Polacco; e “nuovi” ancor che effimeri, come ad esempio la Brigliadori. Non c’è regista italiano del Novecento che abbia fatto ricorso a un parco interpreti di vaglia così esteso, e insieme qualificato, fino a tendere quasi alla totalità: neppure Strehler, neppure Visconti, neppure lo stesso Ronconi. Ma neanche i suoi sodali-concorrenti tv inflazionanti, come Majano o D’Anza, sono riusciti a giungere a tanto.

Il suo elenco è un grande “chi è” del teatro italiano del secolo scorso: mancano giusto… i superdivi requisiti dallo schermo, Gassman e Mastroianni, Sordi e Tognazzi, Loren e Lollobrigida, e poco d’altri. Con loro ci sarebbero proprio tutti. Ma spicca altresì la prontezza di cogliere e utilizzare al meglio volti nuovi che l’attualità scenica, schermica e teleschermica viene di volta in volta, nel tempo, proponendo: Capolicchio e la Tamburi, la Fani e Patrizi, Vettorazzo e la Brochard, senza pregiudizi o snobismi. Lui sa quello che vuole da loro, e chiunque si guarda bene dal lasciar cadere una proposta di scrittura da Bolchi! Già distribuzione del grande Re Lear Rai (e siamo solo nel ‘60: 200 minuti…) sembra quasi un affettivo richiamo/rassegna dei suoi principali e più amati interpreti lungo la carriera, fin dalle origini de “La soffitta”. Ma non si fa mancare neppure le star del cinema europeo: Micheline Presle nella Lulù lunga con l’immensa Melato; Fernando Rey e Anna Galiena in Una donna a Venezia con la giustamente iper-amata Massari.

Oltre a essere, senza possibilità di smentita, indubbiamente il regista italiano più “visto” in assoluto: sommando i 18 o 20 milioni che siano stati per I promessi sposi (oltre il 40% degli abitanti dell’epoca!) con quelli degli altri lavori, si può pervenire a cifre talmente strabilianti da sconsigliare a priori di calcolarle. L’anonimo maturando che, in sede d’esame, parlando dei Promessi ne citava come autore Alessandro Bolchi (lo ricorda, quasi mortificato e impensierito, lo stesso regista…) dà la misura tanto paradossale quanto profonda di quel successo fuori dall’ordinario. E tuttavia, tornado al discorso iniziale, il segreto che rende unico e inimitabile Bolchi può forse davvero essere rinvenuto, col senno di oggi, non tanto nella facile leggenda del grande divulgatore, quanto nella così negativamente sbandierata, in una lettura superficiale e inconcludente, lentezza. Come anche nell’assoluto privilegio conferito all’uso delle parole – più spesso e volentieri originali d’autore, nell’ambito della sua programmatica fedeltà – che vengono valorizzate e nobilitate evitando di inflazionarle: proprio col consapevole e deliberato ricorso al silenzio. In questa scelta risiedono, oggettivamente, la sua modernità e il suo rigore: perché attraverso di essa – se ancora vogliamo e siamo in grado di avvalercene – ci si riapre lo spazio di riflessione personale continuativa necessaria per continuare (o, più probabilmente ritornare) all’esercizio di un diritto-dovere troppo spesso dimenticato con rinunciataria leggerezza. Quello di poter fare il nostro libero e spontaneo, autonomo e critico lavoro di spettatori.

Una necessità di cui Sandro Bolchi era assolutamente consapevole: un bisogno generale propiziando il quale, con l’occhio alla volontà di contribuire a “formare” l’Italia di allora, aveva forse problematicamente intuito, come il Rossellini ” pedagogista” alla Comenius 1960-1975, il ben più sconfortante quadro di quella di oggi.

Nuccio Lodato

Primopiano Sandro Bolchi
1 – Primopiano Sandro Bolchi
2 – Elogio della lentezza e del silenzio
3 – “Regìa di Sandro Bolchi”
4 – I giorni e le opere di un maestro assoluto della messinscena
5 – Quattrocento attori per un solo regista
6 – Il mulino del Po
7 – I miserabili
8 – I promessi sposi
9 – Shakespeare, Dostoevskij e Tolstoj
10 – “Le nostre sono solo traduzioni”
11 – Sandro Bolchi in homevideo e streaming
12 – Per Renzo e Lucia i luoghi del cuore