Alberto Arbasino ci ha lasciato
E’ morto il 22 marzo, domenica, Alberto Arbasino. Era nato a Voghera nel 1930, lo scorso gennaio aveva compiuto 90 anni. Intellettuale, romanziere, poeta e saggista, una voce sempre fuori dal coro. Un autore che rimarrà tra i più rappresentativi del Novecento.
Sul prossimo numero della rivista Oltre verrà proposto un ampio servizio, previsto quale omaggio per il suo novantesimo compleanno sarà anche un affettuoso ricordo e un doveroso ringraziamento. Qui proponiamo un contributo di Gigi Giudice pubblicato sulla rivista Oltre (n. 121, 2010).
A lberto Arbasino (all’anagrafe il nome Alberto scelto dalla madre è preceduto da Nino, omaggio al nonno paterno Gioachino, sempre chiamato Nino in famiglia) nasce a Voghera, in via Mazzini 6, il 22 gennaio 1930, poco dopo la mezzanotte, in Acquario, da Edoardo e Gina Manusardi, primo di tre fratelli (Mario, di cinque anni più giovane, e Massimo, nato nel 1938 e mancato in giovane età, dopo un promettente internato al Collegio Ghislieri di Pavia).
Nati nel 1902 ed esattamente coetanei, mio padre e mia madre (figli e congiunti di avvocati) frequentarono insieme il Liceo di Voghera (ove ebbero come insegnante Diego Valeri durante la Grande Guerra) e l’Università di Pavia, nell’età del charleston. “si traduceva Sofocle e si ballava lo shimmy, si andava in barca sul Ticino” – ricordava il burbero Italo Pietra, che con i ragazzi Manusardi faceva parte della “scuola di via Cavour”, cioè una squadretta di football nei cortili, presso la sottoprefettura. Ma i miei genitori preferivano ricordare le riviste goliardiche tipicamente pavesi. … Mio padre era un bell’uomo, serio e riservato in famiglia, talvolta annoiato ma soprattutto “uomo da club”. Ogni sera andava al circolo Il Ritrovo di cui fu anche presidente, e poi anche presidente del Rotary di Voghera, che gemellò con quello di Manosque presieduto da Jean Giono, di cui amava la compagnia e i libri, portandoli come esempio… Anche mia madre Gina era molto amata dalle signore amiche perché donna colta e brillante: si era laureata con una tesi sugli apocrifi virgiliani (donde l’affettuoso soprannome di Ciris) ma non volle mai aiutare i figli nelle traduzioni e nei compiti, ammonendo che il carattere si forma attraverso sforzi e disciplina, e non facilitazioni…
Le famiglie Arbasino si trasferirono verso la metà dell’Ottocento dal paese di Codevilla alla vicina Voghera, dove poi abitarono sempre, tra gli uffici professionali e le case invernali e le proprietà agricole nei dintorni, con vigne, campi e ville estive…
Un palazzo ‘puro Quattrocento ferrarese’, ricostruito in stile negli anni Venti con effigi graffite di Brunelleschi e altri artefici sotto il cornicione ligneo e bassorilievi marmorei sul balcone d’angolo.
Il testo riportato appena sopra è uno stralcio dalla “Cronologia” proposta da Arbasino stesso sul primo volume della prestigiosa collana “I Meridiani” dell’editore Mondadori, pubblicato nel 2009, in cui sono raccolti i romanzi e i racconti nel 2010 ha fatto seguito la pubblicazione del secondo volume).
Arbasino ha voluto, dopo l’analisi critica “Se il romanziere non racconta storie” a firma di Raffaele Manca, far seguire una rivisitazione, per date ed eventi, di tutta la sua vicenda. Una dilagante serie di appunti e di note (vengono subito in mente le “Note azzurre” di Carlo Dossi) che mescolano l’autobiografia ai commenti (stringati oppure poco contenibili, secondo lo stile alto/basso che è ben noto agli appassionati) sulla sua vita di intellettuale e di proteiforme autoironico prosatore.
Mio fratello Tino, di tre anni più vecchio di lui,, mi diceva che il Nino (con il quale condivideva interessi, letture, discussioni interminabili, libri scambiati, viaggi in Inghilterra), nella Voghera dei primi anni Cinquanta evitava di perdere tempo a “far flanella” seduto ai tavolini del Mokarex, al Giglio d’Oro, o da Tomaghelli, i caffè in voga. Non voleva Arbasino assolutamente perdere ore preziose nelle chiacchiere da bar. Correva a casa, sulla sua Lambretta, a leggere, a studiare. O partiva in treno per Milano ad ascoltare i concerti pianistici di Rubinstein, Benedetti Michelangeli, Clara Haskil, Cortot e le riviste con Wanda Osiris, Totò, Dina Galli, Viarisio, Dapporto. E le messe in scena di Luchino Visconti, gli spettacoli della Scala, con il repertorio delle opere del melodramma classico dirette da De Sabata, Klemperer, Celibidache, Mitropulos, accanto a prime esecuzioni di Strawinsky, Poulenc, Shostakovic, Berio. E le memorabili mostre (su tutte il Caravaggio) curate da Roberto Longhi, e le personali di Fontana, Melotti, Morlotti, Manzoni. Con gli artisti medesimi magari a commentare. E l’editoria vivace e i poeti Montale, Luzi, Raboni e Ugo Mulas, i fotografi, il Giamaica.
Nel 1952, a Voghera, una vicenda tipicamente goliardica, lo porta in tribunale, a causa di parodie e sberleffi di notabili concittadini in un “numero unico” intitolato “Coprifuoco”. I nove studenti coautori vengono assolti dopo un’arringa dello zio Manusardi; e alcuni di loro, rimasti in città, fondano un settimanale “impegnato”, il Cittadino, alternativo al cattolico Giornale di Voghera.
Soprattutto sentiva la necessità – ricordiamo che si laureerà in diritto internazionale, con la prospettiva di una carriera diplomatica – di raggiungere mete che per i suoi coetanei goliardoni parevano banali o irraggiungibili: Parigi, Londra, Bruxelles, Amsterdam, Praga, Vienna. A vedere mostre, musei, spettacoli. Di cui immancabilmente riferiva sulle cartoline agli amici.
Un frammento ancora tratto dalla “Cronologia”:
Autunno ’56 a Londra, aleggiando a Notting Hill Gate, ancora “bohemien”. Mesi e mesi divisi fra le ricerche mattiniere a Chatham House (Royal Institute for International Affaire), in St. James Square, per gli articoli destinati all’Annuario dell’ISPI, ore successive in corsi di conversazione e pronuncia presso Regent Street, per rifinire le scuole e le lezioni giovanili. Le sere a teatro, ascoltando e imparando dai John Gielgud, Laurence Olivier, Ralph Richardson, Rex Harrison, Alec Guinness, Paul Scofield, Edit Evans, Gladys Cooper, Celia Johnson, Vivien Leight, e da debuttante prodigio Albert Finney… Incontri interviste con T.S. Eliot, E.M. Forster, Ivy Compton Burnett, Edith Sitwell…
Ha 26 anni, ma c’è già tutto l’Arbasino degli interessi multiformi, della propensione a confrontarsi con il meglio della cultura, andando a parlare in prima persona con i migliori esponenti (il critico letterario Paolo Milano lo definì subito “il magnetofono ben temperato”). A Roma ha modo di frequentare Nicola Chiaromonte, Umberto Morra, Bernard Berenson, il mondo che ruota attorno al cinema, la “Holliwood del Tevere”; i registi Missiroli, Bolognini, Pasolini, lo scenografo Pizzi, il costumista Tirelli. Rimbombano i motti di spirito alle cene in trattoria “da Casaretto”, con Ennio Flaiano, Comisso, La Capria, Soldati. E molti ascolti all’Accademia di Santa Cecilia, con prelibate esecuzioni di opere di Mahler, Berlioz, Bruckner (e tradizionale assenza dei letterati, sottolinea Arbasino…) E poi tutta la colonia dei pittori: Mazzacurati, Turcato, Pascali, Schifano, Cagli, Mafai, Novelli.
A Parigi frequenterà e intervisterà – sempre per il Mondo – personaggi mitici come Celine o Julien Greene, Cocteau, Jean Renoir, Braudel, Mauriac, Aron… Trasvolerà negli Stati Uniti per trarne torrenziali corrispondenze (poi riscritte e adattate per nuovi saggi) per Il Giorno, oltre che per riviste higbrow come Tempo Presente. Maturando una inesausta capacità di vedere, registrare, annotare, trasmettere ai lettori, la sua stessa voglia di misurarsi con un mondo libero dai vincoli della visione ristretta, autarchica e provinciale ereditata dall’Italietta savoiarda e molto peggiorata dal lugubre ventennio in orbace.
Già nei suoi primissimi esordi c’erano le professoresse non solo vogheresi e i proverbiali cacadubbi nazionali a chiedersi: ma sono veri o se li inventa lì per lì tutti quei nomi citati nei risguardi dei suoi libri e negli articoli. Il più cosmopolita e il più italiano dei nostri autori, il più serio e il più satirico, il più variabile e il più fedele a sé stesso (citando le recenti parole dello scrittore Paolo Di Stefano sul Corrire della Sera) sentì il bisogno di lanciare il manifesto della necessità della “Gita a Chiasso”. Lo fece dalle pagine del Giorno del gennaio 1963 sui ritardi della cultura italiana che si sarebbero evitati solo che si fossero letti e discussi poiché pubblicati oltreconfine da anni, testi di autori come Wittgenstein, Husserl, Richards, Leavis, Leiris, Ayer, Edmund Wilson, Connoly… Nomi non inventati che la café society culturale nazionale, salvo poche eccezioni, aveva fin qui colpevolmente, secondo Arbasino, ignorato. Per pigrizia mentale o peggio per supponenza. Da qui la messa in discussione dei reputati maestri patri, con interventi pesanti e demistificanti anche nei confronti di taluni mostri sacri come Visconti, o Strehler, o Antonioni o Fellini. Cito solo i titoli di una raffica di articoli “Galilei e Giovannini”, “Disordine e senilità precoce”, “La dolce noia”.
Preciso che ho fin qui voluto limitarmi a seguire solo i primi passi dell’affermazione del fenomeno Arbasino. Che darà un fondamentale contributo anche sul piano della sollecitazione a una presa di coscienza “civile” nel nostro Bel Paese. Ai fuochi d’artificio come ai fuochi fatui e ai fantasmi culturali si associano – attraverso un’analisi anche spietata, senza strizzate d’occhio – quelli politici. In anni che si ricordano come “di piombo”, nel 1977 Arbasino scrive “Fantasmi italiani” (edito da Cooperativa Scrittori). Nel 1978 fa seguire, da Garzanti, “In questo stato”, una sorta di instant book, una registrazione a caldo sul caso Moro.
Sempre su questo registro, che lo conferma scrittore civile, sferzante nei giudizi sulla stessa società per cui compone le più esilaranti e divertite corrispondenze, seguirà nel 1980 “Un paese senza” (Garzanti editore), sempre incentrato sui bubboni emergenti e sulla costante vacuità nazionale in un’Italia che non è cresciuta, rimanendo psicologicamente minorenne. Un filone che si dipana fino a “La vita bassa”, che si sintetizza nella quarta di copertina:
Um segno antropologico tribale ed elettorale non solo giovanile … una metafora, nella pubblicistica easy satura di cose che sono metafore di altre cose
Esce da Adelphi nel 2008 e va segnalato perché sorprendentemente figurerà per settimane nelle classifiche dei saggi più venduti. Un mistero o un miracolo.
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Gigi Giudice
Oltre n. 121 – 2010