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Arbasino e la casalinga diffidente

Arbasino e la casalinga diffidente

“Lei è all’avanguardia, diffida delle cose”, affermava Arbasino all’ennesima richiesta di spiegazioni circa la sua “casalinga di Voghera”. Era la presentazione de Le piccole vacanze, edizione Adelphi, alla libreria Ubik nella città natale dello scrittore.

Trascorrendo dal Ritmo laurenziano, acutamente postillato da Cesare Segre, a un excursus di Maria Corti sul De vulgari eloquentia – si era a Lettere nell’Università di Pavia nei primi anni Sessanta -, attraverso le varianti delle Rime del Tasso collazionate da Lanfranco Caretti, si giungeva a respirare una boccata d’aria profumata di moderna poesia solo con Ungaretti nel passaggio da Il porto sepolto all’ Allegria di naufragi e quindi a Sentimento del tempo. Straordinario en plein  di docenti di tutto rilievo, mai più ripetuto, a cui si aggiungeva Gianfranco Contini, da Firenze al suo Collegio  Ghislieri, con illuminanti dissertazioni su e diaietto e espressività in dialetto ed espressività in Italia. Lingua e stile (come dimenticare le analisi stilistiche condotte dal pavese Emilio Bigi sull’opera di Leopardi?) erano profuse, con frequenti richiami a Leo Spitzer, dai celebri maestri, alcuni dei quali erano avviati, con più aggiornati “strumenti critici”, all’analisi delle strutture, quindi alla semiologia.

Non tutto era chiaro o appassionante, in un contesto altamente specialistico  (che mi aveva spinto, guarda caso, a scegliere per la tesi Lo stile di Alherto Cantoni, “scapigliato” tra Pirandello e Dossi). A volte, per superare la crisi da grande abbuffata, ci si scrollava di dosso ogni pur utile filtro critico e ci si abbandonava, senza mediatori, al puro piacere della lettura, a ma più libera e gioiosa “fruizione” degli autori (avvertita un poco come una colpa). Per fortuna, in quel fantastico 1963, nell’aula di Italiano vennero ad alternarsi, alle lezioni di Caretti e alle nostre personali ricerche (su Pavese e Vìttorini, Moravia, Pasolini, Gadda, ecc.), gli scrittori “moderni” sensibili il flautato richiamo del finissimo filologo che era anche uno, straordinario showman: rivedo, fra gli altri, in un abbraccio studentesco mozzafiato, Pratolini, amabilmente fiorentino, Calvino, un poco spaesato e balbettante, Cassola, “la Liala del 63” più che mai subliminale, Bassani, teneramente impacciato nei suoi rifiuti … Erano questi gli scrittori che Caretti amava e che, di conseguenza, noi amavamo: gli scrittori della sua generazione con cui dialogava animatamente, chiedendo anche la nostra partecipazione, e che stimolava appassionatamente a superare il difficile momento e a contrattaccare, a non abbandonare la forza morale e l’impegno civile, a non astrarsi in fughe intellettualistiche o formalismi e cavil-losi esercizi di fantasia (che in seguito si sarebbero detti di tipo “combinatorio”).

Per Bassani, poi, c’erano l’amicizia fraterna dei tempi ferraresi, la conoscenza diretta delle personali vicende e il gusto per le stesse letture. Quel suo scrivere e riscrivere storie minime, sul filo della memoria, fra testimo-nianza e slancio lirico, ci sembrava un invito all’analisi di eventuali varianti per scoprirne il mondo poetico, come si era fatto per Ungaretti sulle indicazioni di De Robertis; ma le ragazze, ricordo, tenevano in mano il Giardino dei Finzi Contini (il “romanzo di consolazione” per eccellenza, secondo la neo-avanguardia) per l’autografo di Giorgio apposto sul frontespizio della dolce e dolorosa storia che l’aveva legato a Micòl. Bassani era più degli altri personaggio che faceva notizia sui giornali, anche per le scelte operate in qualità di direttore dell’importante collana Feltrinelli (inevitabile il richiamo alla pubblicazione del Gattopardo), e proprio allora era entrato in crisi il suo rapporto con l’editore milanese che si era avvicinato agli “sperimentalisti” e nella primavera aveva pubblicato, nonostante la sua contrarietà, il “romanzo-coacervo” Fratelli d’Italia di Alberto Arbasino, che lui considerava non uno scrittore ma “un uomo di mondo che sa scnvere”. Attorno era scoppiata con toni “apocalittici” la nuova querelle tra antichi e moderni: venivano bordate inattese da parte dei trentenni che volevano levare i miti dal piedistallo, dissacrando per un bisogno di novità e di aggiornamento (riconoscendo tutti in qualche modo la parentela con Gadda, senza possederne però “la nera collera”, o volevano “disarcionarli” – diceva qualcuno – dalle posizioni di prestigio e di potere nell’editoria e nei giornali per occuparle a propria volta.

Caretti aveva invitato, dopo il convegno di Palermo, il “feroce” Sanguineti, forse l’esponente maggiormente segnalato per vis polemica del Gruppo ’63 (più dell’ironico Arbasino o di Eco, conosciuto per l’Opera aperta, più dei novissimi Pagliarani, Balestrini e Porta, ecc. che tendevano al “grado zero” del linguaggio o al collage del caos verbale, al pastiche), e con lui fu subito scontro, che si protrasse fino a tardi. Risento le intransigenti professioni ideologiche di quest’ultimo, accompagnate dalle per noi inintelligibili letture di Laborintus, rivedo i gesti di insofferenza di Caretti e lo sbotto finale: ”A questo punto ben venga Fratelli d’Italia!”. “Ieri sera sembrava· che fossero arrivati i cavalli del Partenone”, commentavano le studentesse di Lettere. Intanto si era affacciato al vano aperto dell’aula Lucio Mastronardi, il “maestro di Vigevano”, subito riconosciuto e poi richiesto “a furor di popolo” …

Arbasino era da qualche anno (fra il ’62 e il ’63) il provocatore e “guastatore” per eccllenza delle patrie lettere sul “Mondo” di Pannunzio e sul “Giorno” di Italo Pietra, con la rubrica Le muse e gli archi, informatissimo, aggiornatissimo, spiritoso e brillante un poco snob. Denunciava i “tetri anni Cinquanta” mettendo a nudo la mancanza di culrura  e di conoscenza delle lingue) di tutta una generazione di scrittori che erano passati attraverso il fascismo senza aggiornarsi, confondevano “la buona letteratura con la Cassa del Mezzogiorno” ed erano sempre pronti a fare “il Metastasio di qualcuno”. E noi, in Collegio Ghislieri (che ospitava anche suo fratello Massimo), nella sala lettura fornitissima di giornali e riviste, con un misto di sconcerto e di allegro coinvolgimento, partecipavamo al dileggio degli amati scrittori tacciati di “provincialismo, approssimazione, faciloneria” da parte di questo “nipotino dell’Ingegnere” (e al Politeama assistevamo, con insolito interesse, alla denunciata “confusione ideologica” e lentezza dei film di Antonioni, popolati di “marziani” afflitti da “incomunicabilità”, e anche con malcelata ammirazione alla straordinaria “passamaneria” di Luchino Visconti).

Arbasino sosteneva che occorre chiudere i giardini d’Arcadia alla frequentazione dei Titiro e Menalca dell’ermetismo e del neorealismo, impedendo loro il maquillage all’ultima moda, tipo “fenomenologia” o “alienazione”.

“Ci si accorge – scriveva – che la musica può anche cambiare, ma gratta gratta, sotto sotto si tratta sempre, per bene che vada, di uno scambio di sonetti fìra abatini, che nei loro salottini gorgheggiano su Fillide o versano una lacrimuccia su Nice”.

E allora si dovevano decidere i tanti letterati a compiere la gita a Chiasso “e pregare qualche contrabbandiere di fare un salto alla più vicina drogheria Benasconi” per acquistare, “insieme a un Toblerone e a un paio di pacchetti di Muratti col filtro” i libri che avrebbero permesso la “scomodità dell’apprendistato coi capelli bianchi”

Avversando il romanzo tradizionale con i personaggi a posto e le vicende che hanno un capo e una coda, proponeva come ricetta – e l’applicava – l’opera che tenta di mimare i molteplici piani della realtà e si serve degli strumenti più eterogenei (“narrativa e saggistica, tragedia e farsa, ideologia e scurrilità, frou-frou allucinante, divagazioni dissennate, eruditi elenchi, bric-à-brac mondano”). Faceva riferimento a Petronio, Rabelais, Cervantes, Proust, Musil, Joyce e soprattutto a Gadda.

“Eleganza e libertinaggio in una nube di polvere di riso”, senza la pretesa di toccare l’anima e il cuore e solo con l’intenzione di operare sulla sensibilità. È quanto chiedeva Arbasino ai suoi primi racconti, scritti nelle due estati del ’54 e del ’55 (con un’appendice natalizia di quest’ultimo anno), e pubblicati nel 1957 nei “Coralli” di Einaudi: un volumetto leggero, confezionato nelle scelte e introdotto dall’editor Calvino. A cinquant’anni di distanza, con la ristampa nelle edizioni Adelphi, dopo quelle di Einaudi 1971 e 1974, il 21 luglio, lo scrittore è a Voghera a parlarne, presso il Circolo Il Ritrovo, nella cui biblioteca la memoria potrebbe ritrovare gli abbandoni giovanili ad appassionate letture, complice la bibliotecaria Ernesta Pelizza Marangoni. In questa prima serie di racconti guardava a Proust e a Fitzgerald (ma aveva già pronto L’Anonimo Lombardo, pure scritto nel ’55, dopo la lettura dell’Adalgisa e delle Novelle del Ducato in fiamme, e di ben diversa qualità espressiva, che sarà pubblicato nel ’59 da Bassani nella Biblioteca di Letteratura presso Feltrinelli). Gli scrittori giovani erano conosciuti perché pubblicavano sulle riviste letterarie (“Paragone”, ”l’Illustrazione italiana”, “Il Verri” con Anceschi “che dirigeva molto bene il traffico”), e ciò facilitava il rapporto con gli edi-tori: lui si era avvicinato ad Einaudi – suggerisce scherzosamente – perché lo avvertiva come uno di casa per quel suo birignao comune agli ufficialetti squattrinati del Reggimento Monferrato che vedeva e sentiva a Voghera, mentre commentavano dalla pasticceria Silvani o da Tomaghelli il passeggio delle ragazze… Ambientava personaggi e vicende a Salice – luogo di vacanze, di incontri e conversazioni mondane (per la piccola borghesia e decadente nobiltà, con le sue pretese, i suoi riti, la sua provinciale mancanza di buon gusto e di esperienze) -, a Voghera e a Pavia, con gli studi travagliati e non chiaramente definiti nel periodo della guerra e nel primo dopoguerra, ma anche nei luoghi più famosi della villeggiatura, a Forte dei Marmi, con le infinite avventure amorose, tipiche di una stagione spensierata (che avrebbe avuto il suo acme negli anni Sessanta), a Cannes…

Il primo racconto, Distesa estate, è costruito, come accenna nella nota l’Autore, su un progetto critico: pochi colori (giallo, verde, bianco, blu) che determinano immagini e sostantiv1, bassa percentuale di aggettvi (“Si tratta di acchiappare le immagini come si suol fare con le prime farfalle”). I dialoghi sono desunti dal Portrait of a Lady di Eliot. Anche gli altri racconti sono tutt’altro che immediati, nonostante l’apparenza di freschezza e vivacità, e riflettono una ricerca linguistica, su base anche dialettale (“bru bru”, “mezza calzetta” “andar fuori dalle balle”, dare corda”, “andare in camporella”, “fare la figura del pistola”, “avere una buona nominà”, ecc.), e stilistica con assunzioni formali che interessano un vasto ambito della letteratura italiana del ‘900 (e non solo: chi gli è stato compagno di banco ricorda la sua intelligenza al Liceo Grattoni – era avanti due anni rispetto agli altri -, e, per esempio, una sua relazione ai compagni sulle traduzioni giovanili di Leopardi … ). Si trattava, dunque, di superare il neorealismo (ideologico, schematico e convenzionale), evitando di ritornare alla scrittura “olimpica” ed ermetica dell’ante-guerra, di aprirsi ad esperienze nuove, europee, fuori dalle eser-citazioni scialbe dei riconosciuti italici santoni. Una strada era indicata dai romanzi “dialettali” di Pasolini, l’altra dall”‘espressionismo espressivo” di Gadda (come la definì Contini), che fu subito seguita. La “colpa” di tutto quanto è venuto dopo – celia Arbasino – va dunque a Gadda. C’est la foute à Voltaire, come dicono i francesi. Ma intanto lui viveva esperienze diverse dalla piccola città di provincia: a Milano (dove frequentava il bar Giamaica in cui convenivano artisti come Piero Manzoni o fotografi come Ugo Mulas), a Parigi, a Londra. E ai giornali e alle riviste mandava reportages (in cui riferiva di viaggi, di mostre, di concerti, di incontri con personaggi di fama internazionale) che poi confluivano nei libri. Fondamentale è stata anche l’ esperienza col Gruppo 63, che non era alla caccia di posti di potere ma “proponeva una piattaforma generazionale con gusti e spunti intemazioali, e l’obiettivo di rinnovare il linguaggio della letteratura”.

A chi domanda ragione dell’eccesso di citazioni Arbasino fa notare che le citazioni rientrano in una “cultura liceale media aggiornata” e, a conferma, canticchia brani di rivista di Totò, ricchi di rimandi letterari a Dante e ad Ariosto, e di Wanda Osiris. Scherza con la casalinga di Voghera: “lei è all’avanguardia, diffida delle cose”. Allusione ironica al lettore medio nei suoi confronti? metafora ironica nei confronti dell’attuale letteratura di consumo? Ma non risponde a chi gli chiede un giudizio o una segnalazione su libri e autori contemporanei. Raccoglie dentro capaci scatoloni i libri che gli giungono copiosi e li manda al “Cairoli” di Pavia, dove ha studiato e una targa lo ricorda: spetta agli studenti leggerli e giudicarli, come hanno fatto i giovani in altro tempo (lui consiglierebbe sempre, per esempio, le opere di Kafka o il Doktor Faustus di Thomas Mann).

È tardi, il caldo è soffocante, il microfono funziona male. Ci si alza. Saluti (”Arbasino, ti ricordi dimr?” – “Porta il mantello a ruota e fa il notaio … “), incontri (“Mi riconosci?” -”Ah, quegli occhi … “), abbracci. E poi, alla libreria Ubik, il rito interminabile della dedica con auguri e autografo su Piccole vacanze, che mezza città oggi “consuma” e non ha mai letto in cinquant’anni e probabilmente non leggerà mai.

Virginio Giacomo Bono
Oltre n. 107 – 2007