Arbasino, il treno per andare altrove
Nel 1993 Alberto Arbasino, pubblicò con Adelphi una nuova edizione di “Fratelli d’Italia”, una versione “sterminata”, come la definì su Oltre (n. 30, 1994) Tino Giudice, all’epoca collaboratore della rivista. Amico di vecchia data dello scrittore riportò nel suo contributo, che riproponiamo qui, l’atmosfera degli anni giovanili di Arbasino, Voghera e l’ambiente di provincia, laboratorio in miniatura del Paese, i luoghi “altrove” dove l’avrebbero condotto i molteplici interessi culturali.
Louis Ferdinand Céline, magari sull’onda destrorsa che si è abbattuta sul Paese, è diventato uno scrittore di cui finalmente si parla con una certa insistenza anche da noi, si ripubblica in più moderna traduzione il Voyage au bout de la nuit, si vanno a scovare, con la terrificante trilogia degli anni dell’ultima guerra, le bagatelle polemiche e tutte le minuzie, anche sordide. Ebbene, quando soltanto gli specialisti di letteratura francese e pochi altri lo conoscevano, Alberto Arbasino prendeva il treno da Voghera, andava a Parigi e raggiungeva Meudon dove in una villetta circondata da uno squallore incredibile riusciva a farsi ricevere dal dottor Destouches e a cavare da lui brandelli di un discorso sconcertante:
“Un italiano?” si stupisce parlandomi. “Da decenni non ne ho più visto uno; del resto” mi dice, “troppo giovane, vedo, per aver avvicinato Mussolini. Io l’ho conosciuto bene, quando voleva bonificare Roma, parlo di più di trent’anni fa, abbiamo spesso lavorato insieme, a Palazzo Chigi, in una gran sala col mappamondo, dove gli piaceva tanto fare entrate teatrali, andavo là con una commissione di medici della Società delle Nazioni, c’erano parecchi sudamericani, e il professor Ottolenghi che rappresentava l’Italia. Era estate, faceva anche allora un gran caldo, forse è proprio per fuggire il caldo che i Romani partivano a conquistare l’Europa, ricordo come si cuoceva davanti a quell’immenso monumento bianco, che sembra fatto apposta per servire di sfondo ai veli delle vedove”.
Era il 1957 e il resoconto dell’incontro con lo scrittore, graziato dai tribunali d’epurazione, compare nel volume “Parigi o cara” uscito da Feltrinelli nel 1960. Una sorta di “indagine piuttosto seria sulla maggior parte delle avventure intellettuali che hanno significato qualche cosa in Europa dal ’55 al ’60” come recita il segnalibro dettato dallo stesso autore. Il quale, nella medesima raccolta di saggi, descrive la visita all’accademico di Francia François Mauriac avvenuta la primavera precedente, nel 1956. E’ emblematica, ancora adesso, e le osservazioni raccolte dalla viva voce dell’illustre scrittore che tanto strepito aveva suscitato nella società letteraria e negli ambienti politici benpensanti del tempo per aver clamorosamente lasciato il “Figaro” di cui era stato, per decenni, uno degli opinionisti più ascoltati per passare all”‘Express” di Servan-Schre1ber che sosteneva apertamente De Gaulle nella questione algerina, sono di una sorprendente adattabilità alla realtà politico-sociale odierna. Sentite cosa si dicevano:
“Mauriac appare in doppio petto blu, pantofole, e Legion d’Onore; afferma “ho rimesso la penna nel calamaio un attimo fa. Uno scrittore ha sempre il dovere di comunicare quello che pensa. Voi siete cattolico, vero?” Domanda: e tutti, dì solito, gli rispondono di sì. “E più avanti: …intendiamoci, io non condanno la Destra in blocco. Destra significa tante cose, diverse, c’è una mssa di principi rispettabili e necessari, io ammiro Joseph de Maistre, quello è una saggezza; e poi è giusto che si difenda la concezione della nazionalità … ma costoro non hanno principi, hanno solo interessi … avrete dei guai in Italia, ma non è possibile che la vostra destra economica sia spaventosa e senza scrupoli come da noi; questa congiura degli interessi, un cinismo nello sfruttare le risorse nazionali a beneficio dei pochi … sì, sì, avrete dei guai … “.
Quel colloquio fu per lasciare una traccia nel “Block-notes” che lo scrittore redigeva per l”‘Express” interamente dedicato, quella settimana, al giovane “cattolico” italiano che gli aveva delineato un quadro preciso della situazione del Paese retto dai democristiani col sostegno di laiche minoranze trascurabili, convalidando alcune intuizioni da tempo formulate sullo scenario politico, sulla Chiesa, la società, la cultura, il cinema realista, ma in attesa di qualche testimonianza genuina, non addomesticata.
Sono ricorso a queste due citazioni che mi sembrano esemplari, per sottolineare con quanto anticipo su tanti supercigliosi addetti ai lavori che allora continuavano ad affannarsi attorno alle loro scondite minestrine, ai loro esangui elzeverini sulle terze pagine dei grigi quotidiani, senza conoscere una sola parola d’inglese, il nostro “vogherese” faceva – e consigliava – le sue brave gite a Chiasso dove nella non mai a sufficienza lodata Drogheria Bernasconi, invece delle golose “delikatessen” acquistava le novità letterarie appena sfornate dal mercato editorile internazionale. E appena a casa, se ne parlava in animate chiacchierate in via Emilia, passeggiando in su e in giù, da Piazza Meardi a Piazza San Bovo e viceversa, prima di andare a cena.
Allora Alberto, Nino come lo chiamavano tutti, famigliari, amici, compagni di scuola, studiava medicina a Pavia. La guerra era finita da poco. Durante gli anni bui, dell’oscuramento e delle restrizioni alimentari, aveva saccheggiato, per così dire, la pur fornita biblioteca del Circolo “Il Ritrovo” di cui suo padre, il dottor Edoardo che teneva farmacia in via Emilia, proprio accanto alla rinomata Pasticceria Silvani, era. stato Presidente. Fu-riose letture dopo i Classici latini, greci e italiani, fino a D’Annunzio e Pirandello degli scrittori stranieri, 1inglesi, francesi, americani, tedeschi, quelli della collezione verde della “Medusa” di Mondadori e gli autori della Bompiani: Lion Feutchwanger, Morgan, Huxley, Bernanos, Gide, Greene, Faulkner, D.H. Lawrence, Waugh, Zweig, Steinbeck, la Woolf … E, naturalmente, gli italiani, da Palazzeschi a Moravia, a Savinio alla Irene Brin, insieme ai poeti dello “Specchio”, Cardarelli, Ungaretti, Quasimodo, Sinisgalli, Montale fino alla infatuazione improvvisa, dopo la lunga, estenuata dilettazione proustiana, per Carlo Emilio Gadda con le “Novelle dal Ducato in fiamme“. Ci passavamo i libri, due, tre, perfino quattro la settimana e ci scambiavamo le impressioni. E la musica? Quasi solo la radio, i dischi erano ancora rari e fragilissimi. Non si mancavano gli appuntamenti settimanali con i concerti radiofonici della Martini & Rossi di Torino, qualche opera lirica con Gigli e la Caniglia che allora furoreggiavano e l'”Ora-Cora” ritmo-sinfonica con Alberto Semprini. “Il Trio Lescano – scriverà in “Matinée”, rievocando quegli anni una sorta di “Bildungsroman” o romanzo di formazione, tra versi e frammenti descrittivi in corsivo “che continuava a vegliare su di noi con Cole Porter e Lorenzo da Ponte, ci consegnò direttamente a Strawinskij e a Lotte Lenya (più tardi arrivò la Callas). E fu fatta”.
Intanto si andava molto al cinema, pressoché unica evasione con qualche veglia goliardica, e si recuperavano celebri pellicole di cui si era sentito molto parlare ma che non si erano mai viste, frequentando le proiezioni del “Cine-club” del lunedì sera nella vecchia sala del Dopolavoro Ferroviario di via del Monastero. Fu la prima annata, quella che raccolse in un battibaleno un numero massiccio di soci attratti, in buona parte, dal miraggio di poter vedere più che altro, qualche film audace, tipo “Estasi” proibito dalla censura nei cinematografi ordinari, veramente eccezionale. Si proiettarono, uno dopo l’altro, una ventina di capolavori, da “Il corvo” di Clouzot al “Quarto potere” di Orson Welles, transitando per “Ivan terribile” e “Alexander Nevski” di S.M. Einsestein, ”La bete humaine” di Renoir, “Il milionario” di Clair, “Carnet de bal” di Duvivier. Milano, la città a un’ora circa di treno, offriva molte occasioni di cultura e di svago, concerti e opere alla Scala allora facilmente accessibili, come andare al cinema, con direttori come Bruno Walter, Dimitri Mitropulos, Victor de Sabata, pomeriggi musicali al Nuovo, con Sergiu Celibidache e Arturo Benedetti Michelangeli ma anche Ellington e Armstrong all’Odeon, Totò al Nuovo nelle riviste di Galdieri e la Wandissima al Lirico con le arrembanti discese sotto la passerella.
Si sfruttava al massimo l’abbonamento ferroviario mensile, a tariffa ridotta per universitari, per correre a Milano, col bocchino in bocca, il sabato pomeriggio per le proiezioni della Cineteca Italiana al Lirico che ci hanno consentito di agguantare le pietre miliari del cinema conservate da Rognoni, Comencini e Alberti di cui eravamo diventati amici. e la domenica, sempre di pomeriggio, a teatro, all’Odeon, al Manzoni, al Piccolo Teatro di Grassi e Strehler di cui non perdavamo una recita, a cominciare dall’ “Albergo dei poveri” e dal “Riccardo II” fino al “Galileo” di Brecht. Dell'”Opera da tre soldi”, prima edizione con Bruno Madema a dirigere l’orchestra, dopo due repliche, avevamo imparato benissimo tutti i “songs” che tornando a Voghera dopo lo spettacolo cantavamo con giusta intonazione cabarettistica.
Nessun timore di passare per quelli che i milanesi chiamano “i falchettoni”, con una certa aria di superiorità mista a commiserazione, coloro che nei giorni festivi piombano dalla provincia intasando il centro del capoluogo. Falchetti, magari, ma venuti ad applaudire, al vecchio Olimpia, le atletiche evoluzioni del giovane Vittorio Gassman che nell'”Aquila a due teste” di Jean Cocteau rotolava da una ripida scalinata davanti agli occhi atterriti della Evi Maltagliati. Di ritorno, sempre in treno, da quel memorabile “matinée” si vocalizzavano i due famosi motivi che resero popolare il ftlm di Carol Reed “Il terzo uomo”, allora sulla bocca di tutti. funzionava in quegli anni il Circolo Goliardico che aveva ottenuto dal Comune l’uso di ampi e comodi locali al primo piano dell’ex Palazzo del Tribunale in via Emilia, proprio a lato della Chiesa di San Rocco. Il circolo era una novità, aveva molti aderenti e un presidente, Italo Betto, pieno di iniziative, che privilegiava, più dei balli o dei giochi, quelle culturali. Assai significative, in quella stagione inaugurale, furono le prime tre conferenze programmate destinate a lasciare un segnale forte nell’ambiente cittadino già fatalmente inclinato verso l’assopimento dei decenni futuri.
La prima, sull’espressionismo tedesco, fu tenuta da Paolo Grassi alllora direttore del Piccolo Teatro di Milano, presentato, a nome della sezione culturale, da Giuseppe Tarozzi. La seconda, su tre registi hollywoodiani Wilder, Wellman e Stivens, da Pietro Bianchi, critico cinematografico de “Il Giorno”, presentato da Alberto Arbasino con una “verve” straordinaria che molto divertì il folto uditorio. La terza, su Pablo Picasso in concomitanza con la grande mostra milanese a Palazzo Reale ove, per la prima volta, venne esposta la grande tela “Guernica”, da Marco Valsecchi, critico d’arte, lui pure de “Il Giorno”, presentato dal sottoscritto. Ci promise di venire a tenerci un discorso sulla borghesia, Leo Longanesi che in delegazione andammo a trovare nello studio della sua casa editrice in via Borghetto, un incontro talmente imprevedibile che ci lasciò senza fiato. L’eccentrico personaggio non si fece vedere, con la scusa della nebbia che sicuramente avrebbe trovato sulla strada per Voghera.
An certo interesse per la cultura era diffuso in città: Dino Provenzal era rientrato da Livorno dopo aver diretto per qualche tempo “Il telegrafo”, Enrico Roda e Italo Pietra facevano i giornalisti a Milano e giravano il mondo come inviati, Franco Antonicelli si era, da prima della guerra, trasferito a Torino e si occupava di editoria, da Genova era arrivato Nazareno Fabbretti, gran predicatore dal pulpito e prolifico scrittore, Ugoberto Alfassio Grimaldi e Giuseppe Calandra operavano con impegno nella scuola e nella politica. In quei lunghi inverni che precedettero la progettazione de “Il cittadino” sui tavolini del “Giglio d’Oro” si imbastivano infinite discussioni e molte riunioni si tenevano soprattutto nel salotto del pittore Giansisto Gasparini dello “il maestro” e tale considerato da tutti, l’unico a possedere un’ottima edizione discografica delle vivaldiane “Quattro stagioni”. Qui si almanaccò a lungo attorno a una rivista di politica, arte e letteratura di cui si abbozzò, insieme al modulo grafico, anche il titolo, “La minima”. Ma le opinioni stentavano a collimare e col passare dei mesi si cristallizzarono su due schieramenti opposti. Non se ne fece nulla. Ma tutto quel vano parlare fornì ad Arbasino, sufficiente materiale per un inappuntabile, caustico racconto “Fondazione di un periodico” scritto di getto e uscito sul n° 9 del 1959 di “Palatina” la bella rivista che a Parma redigeva Roberto Tassi, con contributi originali di Roberto Longhi, Attilio Bertolucci, Pietro Bianchi, Paolo Volponi, Pier Paolo Pasolini e firme di analogo spicco.
Si leggeva regolarmente, dopo aver centellinato tutta la serie del “Politecnico” di Vittorini, la “Fiera Letteraria” di Angioletti, il “News Statesman and Nation”, lo “Spectator”, l”‘Observer” “Horizon”, “Arts”, il “Figaro Litteraire”, la “Partisan review” e si mettevano alla berlina gli pseudo anglofili – per noi c’era solo l’incomparabile Mario Praz – che attingevano a man salva per le loro “anticipazioni” da “On Native Grounds” di Alfred Kazin. Quanto ridere con le prove inconfutabili di quei plagi perpetrati da severi e autorevoli cattedrattici. Nell’estate del ’50 avevamo progettato un viaggio in Inghilterra. Era scoppiata la guerra in Korea, nel “Far East”, il lontano Oriente. Angosciati, ci dicevamo che se non fossimo andati allora nell’isola, che con i poeti e i romanzieri che ci erano cari, i giovani oxoniani che si erano immolati sugli “Spitfires” nella battaglia aerea contro i tedeschi, immortalati da Richard Hillay, ci avevano fatto amare, forse non ne avremmo più avuta l’occasione. Forse eravamo un po’ troppo apocalittici, ma la terza guerra mondiale in quel momento cruciale della politica internazionale sembrava profilarsi in una tragica prospettiva. Purtroppo ci andai solo, perché al momento di partire Alberto fu colto da una noiosa indisposizione. Ma l’anno successivo, eccolo a Londra, a far visita a Auden, a Spender, ad Angus Wilson, a Connolly, a Forster … Incontri intriganti, sapienziali, da cui trarrà meticolosi ritratti per “Il Mondo” di Mario Pannunzio la cui compagnia frequenterà assiduamente non appena metterà piede a Roma, dove non aveva ancora una residenza stabile.
Torna spesso in famiglia, come un pendolare del “week-end” e le descrizioni confidenziali della società politico-letteraria-artistica romana in quegli anni abbastanza opprimenti della guerra fredda – poco prima del lento decollo del “boom economico” magistralmente narrato nel racconto emblematico “La 600” uscito su un’intera pagina del ”Mondo” – resoconti orali che faceva agli amici rimasti in provincia, straripanti per la sovrabbondanza di osservazioni seriose infarcite, per tener su il tono della conversazione, da pettegolezzi salaci, battutacce sulfuree colte al volo in Campo Marzio dove aveva sede la redazione del settimanale pannunziano, compilato in gran parte da gentiluomini liberali avversi a Malagodi, abbigliati con vestiti e lobbie all’inglese pur non conoscendo che poche parole di quella lingua o raccolti ai tavoli di Cesaretto, lampi schizzati fuori dalle schermaglie irresistibili tra Maccari e Bartoli, Flaiano e Vigolo. I racconti di “Le piccole vacanze” sono già stati concepiti e scritti. Einaudi li farà uscire nella collana dei “Coralli” nel 1957. E’ un successo immed1ato. Che si conferma due anni dopo con “L’Anonimo Lombardo” edito da Feltrinelli che sarà il suo editore per circa quindici anni, al ritmo di uno e perfino due libri all’anno, fra cui, nel 1963 la prima versione di “Fratelli d’Italia” il grande romanzo epocale che riscriverà, rimaneggerà, ristrutturerà altre due volte fino alla sterminata edizione dell’Adelphi del 1993 che gli valse subito il Premio Bagutta e di cui si fa tuttora un gran parlare.
Lo scrittore vogherese è uno dei protagonisti più vezzeggiati della società letteraria internazionale sempre pronto a estendere la sua sfera d’interessi la sua morbosa curiosità di incessante viaggiatore e reporter. Gli ho rivolto alcune domande via fax e così ha risposto:
D Quando qualche critico di tanto nome ma di scarse opere – non più di qualche prefazione erudita e smilzo saggetto per seminari universitari – tratta con tono di sufficienza il tuo andare e riferire per mostre e spettacoli in tutto il mondo perché ritroverebbe, sotto lo scintillio cosmopolita, l’inconfondibile impronta vogherese, non ti sentirai mica per questo diminuito?
R Sono le conseguenze della “casalinga di Voghera” (come c’è il “militare a Cuneo”). Folklore naz1onal popolare.
D Abbiamo più che riso, sghignazzato in molti al verdetto dell’ultimo Campiello con il rovesciamento sistematico del giudizio di prima istanza degli addetti ai lavori e il conferimento degli allori maggiori a opere che, fra qualche mese, se va bene, avremo tutti dimenticato mentre si continuerà a discutere su “Fratelli d’I-talia” come del romanzo della nostra epoca. Sei più o meno d’ accordo?
R Ho accompagnato la ”creatura”.per tutta la stagione attraverso le varie sedi in qualèhe modo utili: università, librerie: premi, ricevimenti, ecc. Con quella mole e quel prezzo, non la si poteva abbandonare subito.
D Nel tuo “Un paese senza” hai perfettamente individuato alcune costanti del costume italico e prefigurato molte topiche situazioni del nostro stato attuale. Hai veramente doti rabdomantiche?
R “Un paese senza” si basava sugli scrittori italiani letti come antropologi dei caratteri nazionali: il resto veniva da sé.
D Ti attrae sempre di più, o sbaglio, il “reportage” un tempo praticato da scrittori di buon nome e oggi quasi del tutto scomparso dal nostro giornalismo che sembra inseguire soltanto col fiato corto tutto quello che anticipa la televisione?
R E pensare che negli anni ’60 il reportage ben scritto si chiamava “new joumalism”. Diventerà una roba postmoderna? Comunque, si lavora con l’attrezzatura che si ha.
D Cosa pensi dell’anatema di Popper sulle nequizie perpetrate dalla comunicazione televisiva?
R Ormai i danni sono stati fatti: è stato tutto rapido.
D Per noi tu saresti il presidente ideale della Biennale di Venezia o, ancora meglio, il miglior sovrintendente in circolazione al Teatro alla Scala di Milano. Con gli auspicati rivolgimenti in corso negli enti pubblici, spesso tanto deprecati, le speranze di avere uno dei suddetti posti qualcuno che fmalmente se ne intende potranno mai realizzarsi?
R Presidente o sovnntendente, mai. Perché preferire le riunioni sulle beghe a tutto quello che mi rimane da scrivere o riscrivere?
Tino Giudice
Oltre n. 30 – 1994