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Bruno Tacconi, lo scrittore dei faraoni

Bruno Tacconi, lo scrittore dei faraoni

Splendori e Miserie dell’Antico Egitto nei libri di Bruno Tacconi

Bruno Tacconi scriveva di notte. Lontano dai suoi pazienti, levatosi il camice da dottore. Le stanze della villa tacevano, ma una luce proveniva ancora dallo studio, e rimaneva accesa fino a tardi. Si udiva soltanto il rumore della macchina per scrivere, i tonfi sordi dei tasti: ha sempre scritto a macchina, Tacconi, non usava la penna. La sua casa, in quelle ore di intensa e febbrile attività creativa, si trasformava. Più vasti gli spazi, più buie le camere come nell’interno di una piramide.

Scriveva di luoghi misteriosi, distanti in chilometri, separati dal Mediterraneo; e distanti in epoche, separati dai secoli. Personaggi appartenuti ad un tempo rintracciabile soltanto attraverso i reperti archeologici, i papiri, i manuali di storiografia. Nelle sue storie si muovono uomini esistiti realmente e uomini che esistevano nella sua fantasia.

“Prima che la mente mi tradisca voglio perciò rivivere il passato per attutire l’ansia dell’attesa. Racconterò quindi della Terra di Canaan, delle mie avventure di medico-ambasciatore, delle amarezze e dei frammenti di gioia, dei conflitti che mi hanno travagliato, della mia solitudine di ateo” (Il medico di Gerusalemme).

C’era in Tacconi la stessa ansia di voler raccontare del giovane Tari, il medico egizio-cananeo che pronuncia queste parole, protagonista del romanzo con il quale lo scrittore, più che altrove, svela qualcosa di sè, della sua biografia, della sua professione. Assillato dal desiderio di avere notizie della famiglia dispersa, Tari si muove in mezzo ad una turba di scribi corrotti, tronfi generali egizi, sacerdoti in sorda guerra tra loro, ma con l’abnegazione e lo scrupolo umano che fanno del medico di Gerusalemme un esemplare medico di oggi. Nel personaggio si rispecchia la dedizione che Tacconi riversava nella sua attività di dottore prima ancora che di scrittore; l’attaccamento e la passione verso una professione che lo fece diventare uno stimato specialista davanti a molti pazienti e, soltanto in una nuova età della sua vita, uno stimato scrittore davanti ai suoi lettori. Anche in questa volontà di non abbandonare mai la sua prima occupazione, stanno i motivi della fama che raggiunse in campo letterario.

“Gli scribi pagavano le tasse scrivendo. Gli altri sudditi versavano invece da dieci a quindici misure di grano per stat di terreno posseduto, e cioè quasi tre quarti di sacco oppure, se non erano agricoltori, potevano pagare con merce il cui valore veniva rapportato al prezzo di questo cereale. L’imposta era dovuta ai templi e alla Corona, più qualcosa per gli scribi esattori” (Lo schiavo Hanis).

Tacconi viaggiava. Molti dei suoi libri nascevano dall’osservazione diretta dei posti, dei monumenti, dei reperti. Scriveva dei reportages sotto forma di romanzi. Per questo le sue storie sono avvincenti e misteriose: appassionato di archeologia, si è sempre interessato alle antiche civiltà della Valle del Nilo, della Mesopotamia e del Sud America, leggendo intere biblioteche sull’argomento e visitando, in ogni parte del mondo, i musei che ne contengono i reperti archeologici. Una delle qualità della prosa di Tacconi, chiara e fluida, sta proprio nell’estrema precisione della ricostruzione storica. I suoi romanzi sono anche un affresco fedele del quadro sociale, politico e religioso in cui si snoda la vicenda principale. Dovizia di particolari, accurate descrizioni geografiche, resoconti di battaglie, successioni genealogiche, perfino l’esatta corrispondenza delle unità di misura di peso e volume: tutto è rispettato e verificato. Molti dei suoi libri sono corredati di un glossario in cui l’autore svela le voci oscure. Così veniamo a sapere che lo “stat”, di cui si parla nel passo, è una misura di superficie equivalente a cento cubiti reali.

“Quando m’incamminai verso la strada dei Gentili, all’ora decima, Gerusalemme era ancora viva e rumorosa. In previsione della giornata festiva il riposo pomeridiano era stato breve per cui uomini e carriaggi, bestie da soma e donne ciarliere popolavano anche le viuzze. Vedevo questa gente sciamare piccola piccola dalla torre Fasael” (Salomè).

Nei libri di Tacconi la narrazione si apre sovente con una panoramica da lontano. Si tratta di un movimento d’apertura, come quello della macchina da presa, che spazia sopra un posto, una città, una via (come la “strada dei Gentili”). Spesso è l’inquadratura di un tramonto, la descrizione della notte che scende, di un’alba luminosa e quindi, come avviene per i bravi scrittori, di una vicenda che ha gli stessi colori della natura appena descritta. Poi inizia la messa a fuoco. La macchina da presa si concentra su di un particolare: una casa, un’iscrizione funeraria sul coperchio di un sarcofago, un fregio o una finestra. Lo zoom fa risaltare un oggetto. Si mette a fuoco una persona, inizia un dialogo. La nuova immagine è, dopotutto, il carattere, il sentimento di un singolo personaggio. Da qui Tacconi iniziava a raccontare e lasciava che la sua saga prendesse il largo.

Nato a Voghera nel 1913, Bruno Tacconi arrivò alla scrittura attraverso una via autonoma e singolare.
Da giovane svolse diversi lavori (fu operaio e disegnatore), prima di diplomarsi in odontotecnica. Iniziò ad esercitare la professione e si laureò in Medicina pochi anni più tardi, diventando uno stimato e conosciuto professionista. Fondamentale per la sua carriera di medico e di scrittore fu l’incontro con la professoressa Bruna Massone, la donna che sposò e con la quale condivise i momenti più importanti della sua vita. Bruna Massone ricorda con slancio le vicende del marito, è lei che racconta e io sto ad ascoltare la sua storia.
“Uomo di grandi passioni”, così oggi Bruna lo definisce e ci parla dell’interesse di Tacconi per la musica classica, della sua bravura nel suonare il violino, dell’hobby della fotografia.

E poi arrivarono le diapositive, scattate a centinaia durante tutti i loro numerosi viaggi e proiettate agli amici del Lions Club. I soci ascoltarono rapiti il resoconto di quel medico che conosceva tanto bene le terre lontane; fu invitato ai circoli di Pavia e di Novara dove avrebbe parlato davanti ad illustri professori di storia. Per questo, per evitare improbabili scivoloni, Tacconi una sera entrò nel suo studio con l’intenzione di redigere una traccia per la conferenza da tenere. Si fece tardi, si sentiva il rumore della macchina per scrivere, la moglie era sorpresa: quella sera, per caso e per desiderio, lo scrittore compose tutto di un fiato il primo capitolo de La verità perduta, il libro che costituì il suo esordio e che lo fece conoscere da subito al grande pubblico.
Nei mesi, negli anni successivi, fingendosi intento ad altre occupazioni, continuò a scrivere il romanzo e a chiudere i fogli sotto chiave nel cassetto della scrivania. Ne uscì un’opera di mille pagine, divenute seicento dopo l’accurato labor limae.

Il contatto con la Mondadori, la casa editrice che ha pubblicato tutti i romanzi di Tacconi, non si fece attendere. Il dottore inviò il dattiloscritto per una valutazione, un giudizio; fu convocato otto mesi più tardi da Alcide Paolini, allora responsabile della narrativa italiana, che da quel giorno divenne un sincero amico e un frequentatore di Casa Tacconi.
Sorpresi, gli addetti ai lavori chiesero all’autore dove avesse raccolto l’enorme messe di informazioni, mentre la professoressa Valdoni, docente di Storia Antica alla Cattolica di Milano, espresse, in qualità di esperta, un giudizio più che positivo sulla ricostruzione storica nel romanzo di Tacconi. Un solo dato era discordante tra lei e l’autore: la capacità della giara egiziana. Particolare curioso che confermò le profonde conoscenze dello scrittore quando riuscì a dimostrare, attraverso accurate ricerche, come la sua tesi fosse esatta.

Era il 1972 quando uscì il primo libro, La verità perduta appunto, e da allora la fama e il successo di Tacconi continuarono a crescere. La gente si appassionò alle sue storie, l’editore chiedeva nuovi titoli. Ma Tacconi, schivo e riservato, non si lasciò mai attrarre dal miraggio della mondanità e anche quando la Mondadori lo invitò caldamente a lasciare Voghera per Milano, egli non volle abbandonare la sua terra, a cui era profondamente legato, e i suoi pazienti. Per questo esercitò la professione di medico sino all’ultimo, lasciandola soltanto due anni prima della morte avvenuta nel 1986.

Nel 1974 con L’uomo di Babele, uscito l’anno precedente, fu finalista al Premio Bancarella e in concomitanza si aggiudicò un premio internazionale per un originale saggio sulle tecniche di mummificazione dell’antico Egitto. Riconoscimenti e partecipazioni a dibattiti e a conferenze a carattere scientifico furono per lui degli appuntamenti fissi. La moglie spesso lo seguiva nei suoi viaggi, lei era la sua prima lettrice e la sua unica consigliera, tanto è vero che venne incaricata da Paolini di concludere la 2ª, la 3ª e la 4ª stesura del romanzo La signora di Atlantide, uscito postumo nel 1988. Fu sempre lei ad essere al suo fianco quando l’editore inviò Tacconi in Messico con la richiesta di scrivere una nuova storia ambientata in quella terra lontana. La moglie ricorda che l’autore non ne rimase ben impressionato, disse che le donne di quei posti non riuscivano ad affascinarlo e partì alla volta del Perù. Lì la storia del luogo e la gente lo entusiasmarono e nacque così La vergine del sole (1975).
Sembra una coincidenza, un caso, come le vicende che capitano ai personaggi dei suoi romanzi, ma Bruno Tacconi amava arrivare alle cose per strade tutte sue, attraverso la sensibilità e l’intelligenza, come fece per la letteratura, avendo accanto una compagna di viaggio all’altezza di un bravo scrittore.

Matteo Colombo – Giornalista, scrittore, direttore de “Il Popolo – settimanale della Diocesi di Tortona”
Oltre n. 61 – 2000