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“Dialettica dell’andare e del tornare”

“Dialettica dell’andare e del tornare”

Le ambientazioni bobbiesi sullo sfondo della val Trebbia

Nuccio Lodato

La “quasi natìa” Bobbio, al di là della stessa, anagrafica e domiciliante Piacenza, si fa largo nel cinema di Bellocchio fin dal remotissimo debutto, Abbasso il zio: 12’ prodotti da Giorgio Patara. Ci sono già le musiche di Trovaioli, la fotografia di Cosulich e aiuti come Gustavo Dahl e Sandro Franchina, compagni di corso al Centro Sperimentale, nel cui ambito la prova nasce. Bellocchio, prima di diplomarvisi in regìa, ne aveva iniziata la frequenza da aspirante attore.
Il misterioso titolo si riferisce alla sgrammaticata scritta dipinta su di un muro interno del cimitero in cui è ambientato. Il breve film, visto oggi grazie alla sopravvenuta disponibilità in dvd, rivela temi caratterizzanti, originalità ispirativa, una forte carica di selettività stilistica e figurativa.

Doti rarissimamente rilevabili tutte insieme in un esordiente, e già percepibili in misura tale da far considerare meno sorprendente, col senno di poi, la successiva esplosione de I pugni in tasca.
La chiave di volta della vicinanza alla storica e suggestiva “capitale” della Val Trebbia l’ha esplicitata lo stesso regista nella lunga intervista suscitata dalla vasta competenza bellocchiana di Paola Malanga, in occasione del Leone d’Oro alla carriera (con un titolo, Quelli che restano quelli vanno, che pare quasi presentire l’analogo del terzo volume dell’Amica geniale della Ferrante, Storia di chi fugge e di chi resta, che sarebbe uscito due anni dopo): “La qualità, il carattere, la forza de I pugni in tasca nasce anche dal fatto che è stato girato in un paese in cui avevo trascorso tante estati della mia vita, in cui avevo vissuto tante esperienze: più che Piacenza, il corpo del film è la città di Bobbio. Da lì nasce tutta quell’immersione in una dimensione pazzesca, feroce, ma anche leggera, che ne è la caratteristica. Quell’estate, dopo Locarno, il film fu presentato a Bobbio, all’aperto: il suo contenuto fu in qualche modo trascurato: fu accettato, non se ne discusse, divenne un aspetto secondario. L’aspetto primario per il paese era che un quasi concittadino – anche se ero nato a Piacenza, ma in fondo bobbiese d’adozione – aveva ricevuto tutta una serie di riconoscimenti. E poi la serata era andata benissimo e fu un grande successo. Mi pare che ci sia stato un titolo di ‘Libertà’, un po’ ironico: la pia Bobbio di fronte a un film non orribile, ma assolutamente scandaloso, contro la famiglia. La ‘pia Bobbio’ però accettò, in una forma di accoglimento cattolico, una cosa che era proprio il suo contrario.

Vacanze in Val Trebbia, siamo nell’80. Avevo preso una decisione che poi si realizzò nei fatti: di separarmene, come se ci fosse proprio una rottura verticale. Non tornai più a Bobbio per moltissimi anni. Curiosamente vi ritornai con la nascita di Elena, e perché Bobbio mi offrì di fare un piccolissimo esercizio di cinema. Lì, col passare del tempo, è chiaro, ritornando ogni estate, nel lavoro, nella rielaborazione di tutta una serie di temi anche familiari, nel rappresentare anche figure familiari nuove e della mia età, c’è stato un oggettivo ritorno anche alla mia infanzia, alla mia esperienza di adolescente, perché dopo me ne andai. Però non nostalgica, credo, perché è sempre stata un’esperienza vissuta con le nuove generazioni. In tutti gli episodi di Sorelle Mai c’è sempre il vecchio e il nuovo; c’è sempre chi in qualche modo è rimasto e chi è andato. In questa dialettica è forse anche la verità della mia vita: di andarmene e di ritornare ma non per morire nel passato, pensando sì a grandi amori, a Pascoli, a Gozzano, a quel tipo di tradizione. Anche se in Vacanze in Val Trebbia c’è la battuta di un mio carissimo amico, poi purtroppo scomparso – perché manca tutta una serie di persone… – Beppe Ciavatta, che appunto dice: ‘Quando sai che la sua vecchiaia la finirà qua, sicuro come l’oro, come fanno tutti quelli di Bobbio’ ”.

Le ambientazioni bobbiesi si sono infatti sempre susseguite: dai Pugni in tasca – il cui ideale controcanto successivo, Gli occhi, la bocca verrà però locato a Bologna – al secondo momento de La macchina cinema, quando vi si svolge una discussione sul tema tra gli amici di Bellocchio, cui prende parte il sopravvenuto Claudio Besestri, ex-attore anche in Nel nome del padre, poi mutatosi in ambulante. La centralità di Vacanze in Val Trebbia è stata posta in luce dallo stesso autore: “Combina delle immagini di una certa qualità con altre che, per ragioni anche di fretta, di improvvisazione, sono un pochino, secondo me, dilettantesche. Anche se lì c’è tutta una serie di radici, di spunti che riguardano molto profondamente l’esperienza della mia vita e dell’essere cineasta. Era in corso una sorta di messa in discussione di quel tipo di mondo, di quel tipo di realtà, e volevo in qualche modo chiuderla”.

La complessità protratta nel tempo dell’operazione che conduce dal primo Sorelle a Sorelle Mai viene a intrecciarsi via via con la sopravvenuta esperienza continuativa del Laboratorio Fare Cinema connesso all’omonima Fondazione e al festival estivo bobbiese, nel frattempo decollato con l’impulso determinante dello stesso Bellocchio. Si dà così luogo a un’imponente serie annuaria di piccole ma significative esperienze di concepire, girare e montare insieme coi giovani, pur elaborando e rimeditando anche tematiche personali.
La preziosità dell’esperienza è rimarcata nella stessa conversazione: “Si lavora molto sulla velocità, sull’improvvisazione: una serie di battute vengono modificate da un giorno all’altro. Complessivamente prevale un clima, non voglio dire di entusiasmo, ma di forte partecipazione: c’è un’irresponsabilità molto positiva. Non ci sono orari o sono molto elastici: si va lì e si prepara con molta leggerezza. Fare un film, ma sempre, non perché oggi la situazione sia peggiorata, [è difficile]: hai dei tempi, non puoi sprecare un minuto; c’è una troupe che aspetta, che è pagata. Anche qui la piccola troupe viene pagata, però c’è questo sentimento che anche se sbagli, se fai una cosa che poi alla fine non ti piace, non è che hai l’esame del festival, dell’uscita, del produttore… Questo è molto importante: è stata un’esercitazione annuale molto di formazione, lo dico senza retorica”.

Precisando ulteriormente, in un’altra conversazione coeva, registrata dallo stesso divano rosso e dedicata a Sorelle Mai: “Facendo ogni anno a Bobbio il laboratorio Fare Cinema, sentivo la necessità di offrire a chi vi partecipava delle immagini che avessero una loro originalità: allora ho cercato lì situazioni e personaggi che conoscevo profondamente. Perché non avevamo una voce corrispondente ai costi di produzione: sì, avevamo tecnici retribuiti e attori ospiti, ma nulla di scenografia e costumi per ricostruire degli ambienti, e di conseguenza dovevamo cercare e trovare, in quello che esisteva, caratteristiche e contenuti di forte personalità. Ma c’era un’occasione più profonda e personale che mi si presentava: quella di fare uscire dall’ombra alcuni personaggi familiari: in particolare le mie sorelle. Quando penso a loro penso a Pascoli, a Cechov: donne meravigliose, angeliche, che per un certo destino sono rimaste in casa. Vivendo in modo ottocentesco, quando già eravamo nel Novecento, nel dopoguerra: le ragazze uscivano e andavano a ballare, si sposavano e facevano figli…”.
La sublimazione della tendenza, prima ancora che nel solo momentaneamente conclusivo Marx può aspettare, si sarebbe registrata già dal 2015 con Sangue del mio sangue, dove la Bobbio del Seicento e quella odierna s’intersecano in un inusitato intreccio che richiama direttamente e indirettamente l’intero mondo di Bellocchio (ma l’intrecciarsi del diciassettesimo secolo con la realità contemporanea alla luce della stregoneria femminile innervava, in tutt’altro periodo del suo itinerario filmico, La visione del sabba).
La scelta della magnifica poesia dialettale Piacenza di Valente Faustini, detta da Gino Castellini, che accompagna lo splendido repertorio di filmati d’epoca introduttivo in “…addio del passato…”, basterebbe da sola ad attestare la profondità del legame – ammesso o meno che di tempo in tempo sia stato – tra Marco Bellocchio e le sue terre.

Nuccio Lodato

Primopiano Marco Bellocchio
1 – Marco Bellocchio. La rabbia, la passione
2 – Da una A di sessant’anni fa a una Z ancora tutta da immaginare…
3 – La contemplazione e il mistero delle immagini
4 – Un uomo, un intellettuale, fedele a se stesso
5 – Regista sul terreno fertile dell’irrisolutezza
6 – “Vecchia Piacenza sei piena di sorprese”
7 – “Dialettica dell’andare e del tornare”