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Il futuro anteriore di Clemen Parrocchetti

Il futuro anteriore di Clemen Parrocchetti

Il castello di Borgo Adorno, nel raccontare la sua storia millenaria, ha catturato le aspirazioni della sua ultima signora. Un’artista controcorrente, femminile e femminista formatasi al fuoco della contestazione. Sarà sede dell’Associazione Clemen Parrocchetti e delle molte attività che nel nome della prolifica autrice ne animeranno ancora le sale e le stanze alla ricerca di una continuità all’insegna della creatività e dell’arte.

Cose inopportune le hanno fatte in tanti, ma ciò che rende Clemen interessante è che lei sembra essere inopportuna in due sensi, vale a dire sia come signorina (poi signora, poi madre) di “buona famiglia”, che come artista.
Vuole disegnare, diventare pittrice. Questo è inopportuno per una ragazza per bene nata nel 1923, infatti i suoi tentano di impedirglielo, ma i loro sono “ostacoli affettuosi”. Finisce il liceo e viene ammessa a Brera.
Si innamora di Giampaolo Guidobono Cavalchini, lo sposa e ha quattro figli in cinque anni. Tutto ciò è inopportuno per una giovane donna che vuole fare la pittrice professionista, è come mettersi in gabbia.
Ma evidentemente Clemen sa quel che fa perché è con l’approvazione del marito che torna a Brera – la Brera di Carpi – e si diploma. Non ha intenzione di chiudere il diploma in un cassetto e nel 1957 alla Galleria Spotorno di Milano si apre la sua prima personale.

Clemen sembrerebbe aver deciso agli occhi di chi sarà inopportuna, ma ecco che proprio in quel momento, quando si sta avviando alla carriera che ha fortemente voluto, nasce la quinta figlia. Se per molte pittrici la scelta dell’arte ha coinciso con il sacrificio (o la fine) del matrimonio e la rinuncia alla maternità (o l’inizio di un rapporto difficile con i figli) per lei non è così. Anzi riesce anche a svolgere il suo ruolo di castellana di Borgo Adorno, sempre al corrente di ciò che accade in paese, sempre pronta ad aiutare.

Clemen partecipa alle manifestazioni femministe, conosce Emma Bonino e Adele Faccio, ma soprattutto si impegna nella sua opere a raccontare le donne, quelle sfruttate, quelle senza voce, quelle picchiate e lo fa usando i mezzi che anche la tradizione più rigida ha sempre permesso loro di usare: ago e filo. Anty Pansera parla di “sarta-fabbro” che usa strumenti poveri e codici linguistici che tutti, soprattutto le donne, possono capire, Rossana Bossaglia, a sua volta, di ricamo e cuciture che raccontano “le pareti domestiche, il lavoro che non è lavoro, che non ha orari né leggi, interrotto e ripreso […] un modo di vita legato al paziente, artigianale operare dentro le pareti domestiche”. Per Adele Faccio è “un modo di esprimersi che non lascia margine alle dolci sofisticazioni, all’ovattato confronto dell’indolenza e della conciliazione a qualunque costo”.