La contemplazione e il mistero delle immagini
In “Marx può aspettare”, arrivato dopo quasi sessant’anni di carriera,
Marco Bellocchio tenta di affrontare il dramma della morte del giovane fratello gemello.
Luca Malavasi
Le immagini di Marco e Camillo bambini, poi adolescenti, ritratti separatamente oppure insieme, quindi giovani uomini, Camillo con la sua bellezza un po’ triste, Marco sempre nervosamente sull’attenti, alcune fotografie a colori (sminuiti dal tempo), altre in un bianco e nero o seppia sbiadito…
E poi Marco che continua a vivere: invecchia, sbiadisce in un altro senso, guadagna nello sguardo qualcosa di simile a una saggia pacatezza; Camillo, invece, resta lì, fermo sulla soglia dei trent’anni, inchiodato a quelle immagini che sono doppiamente lontane, fossili più che memorie, visibile e irraggiungibile, un segno trattenuto di vita incompiuta: nell’ultimo dialogo, il Marco di oggi, ottantenne, osserva il fratello dalla sinistra dello schermo, mentre Camillo, ancora ventinovenne, rivolge lo sguardo verso lo spettatore.
I titoli di coda di Marx può aspettare (2021) sono probabilmente il passaggio più commovente di un film che si staglia, nella carriera più che cinquantennale di Marco Bellocchio, come una specie di manifesto poetico: se da un lato, infatti, esso conclude un percorso di ritorno in rapporto alla vita e al cinema – iniziato con Sorelle (2006) e proseguito con Sorelle Mai (2010) – che è per metà autoanalisi, per metà desiderio archeologico, dall’altro lato il “film di famiglia” s’impone come un commovente atto d’amore nei confronti delle immagini che in tanti modi diversi hanno accompagnato e segnato la vita del regista.
Far dire alle immagini ciò che solo le immagini possono dire, raccogliere la loro verità, contemplare la loro evidenza e, al tempo stesso, il loro profondo mistero; far spiegare loro che cosa significa morire e, insieme, continuare a vivere: di questo, in fondo, parla Marx può aspettare, e cioè di tutto il cinema di Bellocchio, che proprio nel segno di un’immagine di famiglia sfocata – I pugni in tasca (1965) –, omicida e insieme suicida, irrompe sulla scena del cinema italiano alla metà degli anni Sessanta. C’è una continuità – in forma di discontinuità – facile da stabilire tra questi due film: ha a che fare con Bobbio, città-madre, e con la famiglia – la sua e quella con la “F” maiuscola; e c’è una continuità – tortuosa – meno facile da intuire, ma più interessante: come pochissimi altri registi italiani, Bellocchio non ha, semplicemente, fatto cinema, ma ha confuso consapevolmente – consapevole del carico drammatico – vita e cinema. Detto altrimenti: Bellocchio somiglia profondamente, ancora oggi, al ragazzo di buona famiglia che, nei primi anni Sessanta, è fuggito da Bobbio, diretto a Roma, per fare cinema e salvarsi la vita; superati gli ottant’anni, nel cinema cerca ancora la vita, di dare un senso alla vita. C’è una scena, sempre in Marx può aspettare, a proposito di vita, cinema e immagini, straordinariamente indicativa: Bellocchio si ritrae accanto ai fratelli e alle sorelle, ai figli e ai nipoti, ma sceglie di farlo alla velocità irrisolta, lenta e incerta, dell’istante fotografico e della durata del cinema. Come a dire, appunto, eternamente sospeso tra vita (documento) e cinema (racconto): nel farsi immagine.
Credo che la grandezza misteriosa del cinema di Bellocchio – misteriosa, sì – risieda tutta qui, in questo rapporto mai risolto, e cioè mai indirizzato in una sola direzione trasparente, tra vita, cinema, realtà, immagine.
L’autobiografismo ha poco a che fare col suo cinema – perfino in Marx può aspettare –, o c’entra nella misura in cui vi sono alcuni film in cui Bellocchio usa più apertamente sé stesso per fare cinema. La dimensione realmente privata che attraversa il suo cinema affonda piuttosto nella domanda sul cinema, che lo ha portato in alcuni casi verso il doppio – Gli occhi, la bocca (1982) –, in altri verso la genealogia visuale – Sangue del mio sangue (2015), il suo film forse più frainteso e snobbato, ma certamente tra i più complessi e sperimentali. Lo ha portato dalle parti del documento – a partire da Matti da slegare (1975) – e della ricostruzione – Vincere (2009), Il traditore (2019) – e della traduzione storica o letteraria sempre intesa come esercizio di lettura e interpretazione di immagini e parole – Enrico IV (1984), Il principe di Hombrug (1997), La balia (1999)… Lo ha portato, in tutti i casi, verso un’interrogazione problematica del cinema, del quale – per tornare un’ultima volta al film sulla morte del fratello Camillo – ha cercato di forzare storia e possibilità. Mai in pace, mai per rappacificare. Al contrario. Così, sul modello del finale di Buongiorno, notte (2003), nell’ultima scena di Marx può aspettare Bellocchio si ritrae, al crepuscolo, mentre passeggia sul ponte Gobbo o “del Diavolo” di Bobbio, solo; improvvisamente, nell’inquadratura entra un giovane uomo: tuta da ginnastica con la scritta Isef, gli corre accanto veloce, non lo degna di uno sguardo, continua dritto verso il paese; Marco si ferma, lo guarda, i suoi movimenti incerti traducono il bagliore titubante di un riconoscimento. Chi è? Che cos’è? Il mistero di quell’immagine che lo riguarda, senza guardarlo, è esattamente ciò che lo spinge a fare immagini.
Luca Malavasi
Primopiano Marco Bellocchio
1 – Marco Bellocchio. La rabbia, la passione
2 – Da una A di sessant’anni fa a una Z ancora tutta da immaginare…
3 – La contemplazione e il mistero delle immagini
4 – Un uomo, un intellettuale, fedele a se stesso
5 – Regista sul terreno fertile dell’irrisolutezza
6 – “Vecchia Piacenza sei piena di sorprese”
7 – “Dialettica dell’andare e del tornare”