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Marco Bellocchio oggi: da una A di sessant’anni fa a una Z ancora tutta da immaginare…

Marco Bellocchio oggi: da una A di sessant’anni fa a una Z ancora tutta da immaginare…

Nuccio Lodato

Magnifico, a Volpedo, l’orientamento dell’Associazione Pellizza: concepire alla grande la ripresa post-Covid del suo prestigioso Premio “Quarto Stato” assegnandolo a Marco Bellocchio, maturati esattamente i suoi sessant’anni di militanza registica. Riconoscimento già attribuito tra gli altri, a partire dall’istituzione nel 2001, da Francesco Guccini e Moni Ovadia, Gino Strada e padre Enzo Bianchi, Carlin Petrini e Michele Serra, e che ora arricchisce ulteriormente l’albo d’oro di un altro nome atto a dilatarne incidenza e prestigio.
Il valore etico, sociale, civile e politico della figura di Bellocchio risiede intero nelle straordinarie ricchezza e varietà della sua coerente e insieme mutevole opera. Quella di un instancabile e partecipe osservatore, da sempre teso a decifrare la complessità dolorosa del vivere tanto il passato che il presente nel nostro problematico Paese: attraverso una rigogliosa filmografia che offre, per dirla con Adriano Aprà, “un temario di impressionante coerenza”. “Il futuro non è di Godard né di Bellocchio”. Inappellabile previsione escogitata e pubblicata – addirittura nel perentorio titolo dell’articolo – da un ispirato/aspirante critico di cinema genovese (che per carità patria e solidarietà umana non si nominerà: del resto ne è perso il ricordo…) attorno al 1966.

Ferveva al calor bianco la discussione innescata dall’uscita, per quanto riguardava il nuovo regista italiano, de I pugni in tasca. Parole, come si può ben constatare a ben più di mezzo secolo di distanza, autenticamente… profetiche: Godard, alla soglia dei 92 anni, con le sue incessanti sperimentazioni tiene ancora vigile l’attenzione degli addetti; Bellocchio, di cui qui si parla, giovanissimo al confronto, ha raccolto con il recentissimo Marx può aspettare la forse più vasta e tendenzialmente unanime adesione critica della carriera. Ma è tuttora sulla breccia, impegnato in nuovi progetti: ha appena congedato la sua prima, imminente serie tv per la Rai, Esterno notte, tornando sul caso Moro già scolpito quasi vent’anni fa soprattutto in Buongiorno, notte. Quella voce remota, del resto, non fu allora l’unica a impallinarne temerariamente l’avvenire. Lo stesso Visconti, del quale il regista piacentino si era dichiarato ammiratore, per quanto imprigionato dalla malattia e dalla regressione personale e politica che ne contrassegnarono dolorosamente gli ultimi anni di vita, era stato anche più perentorio: nel nuovo esordiente non aveva mai creduto, infatti non aveva combinato niente ed era sparito (intervista di Lina Coletti, “L’Europeo”, 12 novembre 1974: e in tutto l’ambiente cinematografico non si parlava d’altro, al momento, che della novità dirompente rappresentata, per modi di produzione ed esiti, dalla prima versione “lunga” di Nessuno o tutti!).

Doppiamente ispirata e tempestiva quindi, anche sullo sfondo dell’attualità, la scelta di Volpedo. Qualche anno fa, oltretutto, era già stato desiderio degli animatori, con altrettanto felice intuizione, quello di assegnare lo stesso riconoscimento a Bernardo Bertolucci. Malauguratamente le allora già assai problematiche condizioni di salute dell’autore di Novecento (coi suoi indimenticabili titoli di testa pellizziani!) ebbero a impedirgli di garantire a priori quella presenza personale, giustamente ritenuta parte essenziale della manifestazione.

 

 

Bellocchio e Bertolucci. Quanti abbiano avuto il privilegio di presenziare al Lido (“Venezia68”, 9 settembre 2011) all’incredibile momento in cui proprio Bernardo, dall’alto della sua… sedia a rotelle, consegnò a Marco quello stesso Leone d’Oro alla carriera a sua volta conseguito quattro anni prima, videro completarsi lì, idealmente e concretamente, un cerchio. Nel quale due tra – se non i – maggiori e più perseveranti autori della generazione debuttante con gli anni Sessanta avevano saputo inscrivere, tutelandola e accrescendola, la vitalità profonda del cinema italiano. Prima e più della nuova, non meno carismatica ondata dei Sorrentino e dei Garrone, che proprio alla fine di quel decennio… nascevano.
Lo osservo con particolare coinvolgimento e immedesimazione intensa: la mandata anagrafica di spettatori cui appartengo è stata guidata sapientemente ad addentrarsi davvero nel cinema con le duplici meraviglie giovanili della Parma di Prima della rivoluzione e, l’anno dopo, (diversamente e più a fondo) della Piacenza de I pugni in tasca. Emozione partecipe che si sarebbe ripetuta – nuovamente di persona, condividendola con i superbertolucciani Gabriella Palli e Paolo Lagazzi – al Regio di Parma il 16 dicembre 2014. Quando la città natale avrebbe risarcito anche il maggiore dei Bertolucci con la laurea h.c. della sua … Università mancata, come lo stesso Bernardo volle rammentare spiritosamente nella conclusiva lectio magistralis di prammatica.

In una davvero non reticente intervista con Arianna Finos (“la Repubblica”, 1° luglio 2018) Bellocchio per parte sua avrebbe confessato: “In passato c’era l’ambizione, la rivalità. Per anni ho subito il gran successo di Bernardo Bertolucci: era diventato una star internazionale, mentre io ero ammirato a stimato in un ambito più piccolo. Adesso questo aspetto non c’è più. Abbiamo cenato insieme un mese fa, un incontro cordiale. È come se la sua vita fosse anche la mia, con tanti grandi padri scomparsi. Noi dobbiamo resistere”. (Rileggere queste righe fa ancora maggior impressione, perché Bertolucci se ne sarebbe andato da lì a pochi mesi).

Al suo apparire, invero, I pugni in tasca non aveva registrato l’unanimità delle adesioni critiche accreditatagli dal pur acuto critico concittadino Giulio Cattivelli. Ma i più attenti avevano comunque rilevato o almeno intuito l’eccezionalità di quel debutto nel lungometraggio (paragonabile, il raffronto è valido oggi quanto allora, soltanto proprio al Visconti ’42 di Ossessione). Un vecchio liberale non conservatore dal gusto infallibile, Filippo Sacchi, non aveva nutrito dubbi fin dal paradossale giro di valzer forzato del film, tra Venezia escludente e Locarno premiante: “Il naso fino della gente di mestiere non si sbagliava. Qui c’è qualcosa di più e di diverso. Appena il racconto parte, non c’è più niente che lo fermi: come una lucida, inflessibile macchina” (“Epoca”, 26 dicembre 1965).

La grande ma umorale Anna Banti – difficile immaginare una visione del mondo più agli antipodi, non solo generazionali, di quella del Bellocchio di allora – aveva mostrato pollice verso ai Pugni (non identificando oltretutto, incredibilmente, nella Pitagora l’indimenticabile incarnazione, solo due anni prima, della sua Artemisia di Corte Savella con Squarzina allo Stabile di Genova!). Ripetendosi poi, coerentemente, tanto con La Cina è vicina che con Nel nome del padre: non potendo però onestamente trattenersi dall’ammettere spontaneamente, con intuizione a prima vista irrazionale, a proposito del loro regista, che “le sue qualità promettono ben altro” (“L’Approdo Letterario”, aprile-giugno 1966). Lo stesso Aristarco reagì perplesso, quasi disorientato, nel suo non immotivato sospettare a priori degli irrazionalismi, di fronte al film, rifugiandosi nella curiosa quanto prudente formula del “bozzacchione sull’albero maturo del talento”. Ma dando via libera alla recensione negativa (“Cinema Nuovo”, gennaio-febbraio 1966) di un Lorenzo Pellizzari – peraltro in procinto di prendere congedo dal gruppo della rivista – cui il futuro avrebbe offerto abbondanti occasioni di revisione per uno tra i suoi rarissimi accostamenti mancati. Se Morando Morandini fosse ancora tra noi (quanto ci mancano il suo sguardo e i suoi giudizi!) si sarebbe potuto togliere la soddisfazione di estendere la giusta ipotesi di classificare Gli occhi, la bocca “come seconda parte di un’ideale trilogia, aperta da I pugni in tasca e chiusa con L’ora di religione”, alla sicura configurazione di una tetralogia sfociata in raggiunta, incondizionata maturità, con Marx può aspettare. “Non ho più voglia di fare il ribelle” anticipava del resto lo stesso Bellocchio all’epoca de Gli occhi: e proprio L’ora di religione ne avrebbe rappresentato la più autorevole conferma. Quando, intervistato dalla Malanga, asserì che in quel film la tragedia familiare non fosse stata sufficientemente elaborata e trasfigurata, presentiva in qualche oscuro modo quest’ultimo con oltre trent’anni di anticipo, avvertendone, per così dire, l’esigenza (non a caso il titolo di lavorazione annunciato parecchio tempo prima era invece L’urlo).

Altrettanto carica di futuro può sembrarci oggi l’osservazione di un’altra grande, Natalia Ginzburg, a proposito dell’ormai lontano Gabbiano: “Bellocchio si è avvicinato alla commedia di Cechov con profondo amore e con profonda umiltà: ma vi ha cercato tutto ciò che era affine al suo mondo, e l’ha tradotto nel suo latino”. Sembra già di intravvedere quel seguito confermante che si sarebbe via via materializzato soprattutto col Pirandello di Enrico IV, de L’uomo dal fiore, de La balia, per sfociare più di recente, tornando al mai abbandonato Cechov, nel davvero magistrale allestimento scenico di Zio Vania.

Anche nelle rarissime occasioni in cui ha accettato di misurarsi con film “su commissione” (ridotte poi a due: Sbatti il mostro e, quasi mezzo secolo dopo, parzialmente Fai bei sogni) Bellocchio ha saputo personalizzare in mondo inconfondibile la peculiarità del suo apporto. Come aveva saputo analizzare con la consueta appropriatezza Matteo Marelli parlando proprio del film dal romanzo di Gramellini: “Se guardiamo con più attenzione, non sono poche le volte in cui si sia impegnato in progetti che potessero ‘liberarlo’ dal suo cinema (al pari di tutti i tentativi – falliti – di chiudere i conti con Bobbio, col tempo del dolore, dove tutto è cominciato). Prendendo a riferimento soltanto gli ultimissimi lavori, un titolo come Fai bei sogni (è così anche per Bella addormentata o Il traditore) può essere considerato come una sorta di ‘pietra d’inciampo’ tanto per lui quanto per noi, ciascuno nella condizione di arrestarsi per riformulare il passo: il regista che ripensa il proprio gesto, obbligando così lo spettatore a riformularlo al di fuori di steccati interpretativi precostituiti”.

Perché, oltretutto, una maggiore attenzione andrebbe tributata al lavoro registico di Bellocchio al di fuori del cinema: al suo rapporto con i classici della prosa e della lirica. Può essere stato sì vero che nella fase iniziale la sua visione, come annotò Tommaso Chiaretti a proposito de La Cina è vicina (nel volume della mai troppo rimpianta collana bolognese della Cappelli da lui curato per il film, 1967) fosse quella secondo cui “il melodramma è ridicolo, anzi è di più, è un bene di consumo borghese e, in quanto tale, gli occorre a sottolineare l’impotenza, l’ottusità, la tabe fisica di una classe”. Ma la successiva maturazione autoriale e personale, il suo rivedere profondamente posizionamenti e punti di vista, l’ha condotto a ben diverse prospettive. Per tornare al raffronto giovanile tra i due maestri, lo stesso Macbeth verdiano cui Bertolucci era ricorso in analogo ambiente e circostanze narrative obiettivamente non a distanza siderale, pur in chiave tonale radicalmente diversa, assolveva nel Bellocchio de La Cina a ben altra funzione. Era il parallelo sonoro all’aggrovigliarsi e dilatarsi del sordido intrigo a quattro dei suoi personaggi. Le note verdiane servivano in Prima della rivoluzione a contrappuntare la solitudine disorientata di Gina aggirantesi nel foyer del Regio. In Bellocchio erano coperte dalla “confessione” di Elena nel palco di famiglia, dai tremebondi rimbrotti e inviti alla prudenza di Vittorio, dal concitato dialogo su come abortire. Non diverso il registro del successivo indugio sarcastico sul canto dello stesso, mentre i giochi del quadrangolo stavano per compiersi. Ma già I pugni in tasca aveva ostentato un ricorso al repertorio lirico che poteva semmai rammentare in analogia, pur con le immense differenze di concezione strutturale, quello proprio degli allestimenti scenici di Carmelo Bene. Successivamente il punto di vista muta e si fa, per così dire, più “reverente”: si pensi al monologo macbethiano di Sara (Donatella Finocchiaro), l’aspirante attrice protagonista che prova trepidante l’imminente, impegnativo ruolo in riva al Trebbia in Sorelle, o alla lettura cechoviana in biblioteca di Giorgio (Pier Giorgio Bellocchio), nella seconda sequenza di Sorelle, destinata poi, oltre che ad esservi reiterata, a diventare quella di apertura in Sorelle Mai. Per non dire della tarda ma diretta discesa in campo registica, in tv e in teatro, a tu per tu col Verdi più classico: accanto a un duplice Rigoletto, proprio ancora Macbeth, per non dire dell’autentico, prezioso miracolo piacentino di “…addio del passato…” che gli spalanca il nuovo millennio.

Sul finire di quello scorso, una rivista di cinema allora di peso aveva invitato i componenti del gruppo a scegliere “100 cineasti per il 2000”. Titolo del remoto collaboratore che puntò su Bellocchio: In lode della libertà di trasformarsi. Sono passati, da allora, per l’a sua volta antico “arrabbiato di Piacenza”, più di una ventina d’anni e una dozzina di altri film: se possibile, di volta in volta ciascuno più bello, imprevisto e azzeccato dell’altro. Il pronostico abitava nell’ovvietà: nessun merito a chi lo formulò. La risposta indiretta di Bellocchio all’aspettativa sarebbe stata, nei fatti, la realizzazione di almeno mezza dozzina di capolavori. Vincere, ad esempio, oltre ad essere forse il suo film più perfetto, è un’analisi del fascismo profondo insito nell’anima italiana di massa, con un’acutezza che può gareggiare vittoriosamente persino con lo Scurati del romanzo in corso M e col del pari straordinario spettacolo teatrale che Massimo Popolizio ne ha appena tratto. Ma il sottoscrittore di quel superfluo pronosticare benaugurante, che il regista continua con infondata generosità, quando gli capita, a definire “il mio primo critico” (tutt’al più, quasi, il primo temerario monografista: ma meglio sorvolare, carissimo Marco…) pregusta di potersi godere di persona, a Volpedo, un ennesimo incontro. Avendo parlato per la prima volta con Bellocchio a un convegno organizzato ad Amalfi da “Filmcritica” (correva il ’68: era il momento proprio de La Cina è vicina e lo accompagnava Elda Tattoli, collaboratrice artistica di quel film) e l’ultima al festival di Asti del 2013 (nella vivissima eco recente di Bella addormentata: con lui c’era Maya Sansa, già centrale anche in Buongiorno, notte). Senza dimenticare l’onore d’averlo ospitato per ben due volte al purtroppo defunto festival della critica alessandrino “Ring!”: l’ovazione con cui il pubblico lo accolse al riaccendersi delle luci, dopo l’esecuzione a sorpresa dal vivo della verdiana “Addio del passato”, mi fa ancora rabbrividire vent’anni dopo (a Venezia 2011, non programmato l’accredito, il dovere/piacere di un apposito mordi-e-fuggi senza pernottamenti per il solo pomeriggio della sua premiazione). C’è insomma la meravigliata gratitudine, certo non solo mia, di aver potuto seguire da vicino una progressione creativa senza molti termini di paragone nel cinema non solo italiano: dalla A di tanto tempo fa a una Z ancora distante e tutta da scrivere. Perché a Bellocchio non è mai passato per la mente di vivere quel riconoscimento come una conclusiva giubilazione museificante. Solo l’anno dopo, eccolo nuovamente concorrere a Venezia con Bella addormentata: non avrebbe disdegnato un nuovo Leone, per un titolo più che mai riportato all’attualità dalla recente decisione della Consulta di non ammettere il referendum abrogativo sul fine vita. Sangue del mio sangue sarebbe stato a sua volta ancora in concorso a Venezia, riportandone l’ambito Fitpresci (Fédération internationale de la presse cinématographique), prima di essere designato miglior film italiano dell’anno dal Sindacato Critici. Il traditore, in concorso a Berlino 2019, con l’ennesimo Globo d’Oro, sarebbe stato letteralmente ricoperto di Nastri d’Argento e David di Donatello una volta tanto convergenti. Infine Marx può aspettare presentato a Cannes pur senza concorrervi, per non dire delle imponenti retrospettive bellocchiane in giro per le capitali del mondo.
Anticipando lo spirito profondo dell’invece attualissimo Premio “Quarto Stato”, aveva scritto bene ancora Morandini proprio a proposito di Bella addormentata, ma con un riferimento facilmente estensibile al quadro complessivo dell’Italia di oggi: “Accorto nel suo coraggio civile, Bellocchio mostra più pena che disprezzo, come di chi abbia sciolto la rabbia nell’elogio appassionato della vita”.

Nuccio Lodato

 

Primopiano Marco Bellocchio
1 – Marco Bellocchio. La rabbia, la passione
2 – Da una A di sessant’anni fa a una Z ancora tutta da immaginare…
3 – La contemplazione e il mistero delle immagini
4 – Un uomo, un intellettuale, fedele a se stesso
5 – Regista sul terreno fertile dell’irrisolutezza
6 – “Vecchia Piacenza sei piena di sorprese”
7 – “Dialettica dell’andare e del tornare”