Pedro l’organaro
Ermanno Bidone
Novembre, la gente cammina in via Emilia avvolta nei pastrani. Un barbiere aspetta nella bottega e appanna la vetrina col respiro. La Fiat 127 di un agricolo col cappello, incurante delle polveri sottili, tossisce rabbiosa nuvolette blu. Da un androne viene il suono di un organo, attutito dai passi e dal traffico. La chiesa è altrove, poco distante in realtà.
Mi addentro e il suono si fa più vicino. In fondo a un cortiletto, al di là un portone di legno, Pedro sta abbarbicato alla sua creatura. Lima, accorda, collega, ispeziona, attacca il pc, gira la manopola dell’elettricità e la ventola si accende: il grande polmone si riempie lentamente d’aria. E inizia a suonare.
Ma poi s’interrompe, squilla il telefono. All’altro capo c’è un funzionario della parrocchia di Asuncion, Paraguay. Vuole accordarsi sugli ultimi dettagli prima che l’artigiano si metta a smontare il bestione per imbarcarlo per il Sudamerica. Perché è lì che “Pedro”, al secolo Lorenzo Pedrazzi, classe 1969, andrà a installare la sua creatura. «Dobbiamo imballare tutto con cura, viaggerà in nave per un mese sull’Atlantico. Poi lo rimonteremo nella cattedrale». Tutto deve essere pronto per il concerto di Natale, battesimo dell’organo venuto dall’Italia.
“È uno strumento di concezione moderna – spiega – perchè il corpo è scollegato dalla consolle utilizzata dal musicista, anche se in realtà nella chiesa verrà posizionata vicina all’organo. In quelli antichi è diverso, è inglobata nella struttura».
1600 canne, di legno e di metallo, da quelle minuscole a quelle lunghe qualche metro, 24 registri reali, 3 tonnellate di peso e oltre un anno di lavoro. A vederlo da vicino l’organo è imponente e ieratico. «Sono strumenti classici, solo studiando quanto fatto da altri organari in passato puoi trovare le soluzioni che ti occorrono, anche se, in realtà, ci è capitato di lavorare in contesti più moderni. Ricordo la chiesa di San Francesco al Fopponino di Milano. Abbiamo dovuto adattarci alle forme avveniristiche disegnate da Giò Ponti, ma ce la siamo cavata alla grande”. Lorenzo parla al plurale. Ai tempi di quei lavori, con lui, c’era ancora papà Pier Bartolomeo, scomparso due anni fa. Grande appassionato di arte, storia e soprattutto organaria, fu lui ad avvicinare alla sua passione Lorenzo, che poi ne ha fatto una professione a tutti gli effetti.
Nel capannone a due passi dal municipio di Broni il mantice soffia nelle canne e attorno si raduna un crocchio di curiosi. Come in una missione quotidiana di spionaggio, i pensionati ascoltano la musica e osservano con attenzione tutti i passaggi costruttivi.
A parte le canne in metallo, che vengono lavorate in una fonderia di Crema, e le componenti elettroniche, il resto viene prodotto interamente in Oltrepò. Lorenzo, dopo anni di attività, è in grado di svolgere praticamente qualsiasi lavoro che riguarda questi strumenti, dai quelli più piccoli destinati ai salotti di casa ai giganti per chiese e cattedrali, come questo.
Riceve commesse in tutto il mondo, per la costruzione ma anche per i restauri: questa in partenza per il Paraguay è una delle più impegnative della sua carriera.
Lorenzo intanto ha preso a smontare le canne e batte un colpo su un cassone, poi lo accarezza. «Pensa che l’hanno voluto tutto di mogano, perché è più resistente: laggiù le tarme del legno sono davvero fameliche».