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Un uomo, un intellettuale, fedele a se stesso

Un uomo, un intellettuale, fedele a se stesso

Film che sono la materializzazione di un profondo bisogno personale

Tullio Masoni

Nel suo studio dalle parti di Sant’Agnese a Roma, Bellocchio teneva dietro la scrivania un grande quadro di Franco Angeli. Viva il primo maggio, si legge fra uno sventolio di bandiere rosse. Gli anni dell’opera, credo di ricordare, sono il ‘68-‘69, gli stessi di Viva il 1° maggio rosso proletario, un film prodotto dall’Unione dei Comunisti Italiani e girato, come il precedente a Paola: Il popolo calabrese ha rialzato la testa, da alcuni militanti guidati dal Nostro.
Ho visto il quadro nel 2003. Azzardo a credere che Bellocchio lo lasciasse esposto non solo per un riconoscimento ad Angeli o per amicizia, ma volendo affermare – con affetto e ironia – una fedeltà.

In proposito tentai di dire qualcosa in una serata “di omaggio” a Piacenza. Ero stato invitato, con Lorenzo Pellizzari ed Emanuela Martini, a pronunciare un breve intervento, e provai a spiegare come, fra tutti gli immaginabili rischi, la fedeltà potesse rispondere a una scelta critica.

Col poetico trauma del film di esordio: I pugni in tasca, Bellocchio aveva, per così dire, “viziato” molti di noi che, dopo gli entusiasmi avrebbero chiesto – più o meno consapevolmente – la replica del capolavoro e puntato il fucile. Invece un autore si può aspettare; in altre parole, anche dalle opere che si pensano sbagliate occorre raccogliere le intenzioni e la continuità. Il gabbiano è del 1977, Salto nel vuoto (un film stilisticamente anticipatore e ancora oggi notevole per complessità e inventiva) del 1980 come Vacanze in Val Trebbia, luogo di preziosi ritorni: Sorelle Mai, molto più tardi, poi Sangue del mio sangue.

Il periodo segnato dall’influsso di Massimo Fagioli, pur se ha suscitato rifiuti comprensibili, offre alla visione d’insieme una tribolata coerenza, a mio avviso, e sarebbe sbagliato trascurare alcuni esiti magari parziali chiudendo tutto, come diversi fecero, in “zona proibita”.

Una nuova e larga attenzione della critica si avviò con Il principe di Homburg, ma credo l’avrebbero meritata anche il bisogno di insistere su Pirandello – nel diffuso scetticismo mi occupai di Enrico IV, dove il regista paga in modo del tutto personale qualche debito verso il Visconti di Vaghe stelle dell’Orsa – e gli spunti di memoria classica che riemergevano dalla formazione giovanile. Una volta, prima che usasse la parola nei titoli, gli chiesi perché sovente, nei suoi film, ci fossero sorelle; lui, con umiltà in genere mal riconosciuta, rispose: “…mah…Pascoli, forse…”. Dico umiltà e dovrei aggiungere disponibile rigore. Quello che in un convegno a lui dedicato dalla Regione Emilia Romagna e dal Comune di Ravenna nel 2003, lo indusse a seguire i lavori per tutto il tempo e a rispondere a ogni domanda successiva alle relazioni.

Marx può aspettare – dalla frase detta dal fratello gemello del regista, Camillo, morto suicida nel ’68 – è un quadro di famiglia delineato con sincerità talvolta scomoda, e una commovente riflessione d’artista. Bellocchio aveva già evocato il fratello per brani: Salto nel vuoto, Gli occhi, la bocca, L’ora di religione… Questa volta lo mette al centro di un’opera che sembra compiere una lunga e conflittuale autoanalisi. Ancora la famiglia, che negli anni è stata scomposta dialetticamente secondo la negazione del materno (all’inizio fu matricidio) e il suo recupero dentro una generale ricerca del femminile, l’assenza del padre e la sua ricomparsa. Come considerare se non primigenia, e con gli occhi del poi epifanica, l’immagine della giovane madre che spingendo una carrozzina passa fuori dal cimitero abbandonato in Abbasso il zio?

Autore “prolifico”, ma accompagnato in ogni svolta e difficoltà dall’indispensabile mania platonica, Bellocchio ha sempre fatto i film che aveva bisogno di fare. È stato cioè fedele a se stesso. Anche per questo, forse, il quadro di Angeli è rimasto sulla parete, decenni dopo la fine di un desiderio di rivolta che, oltre la forma esteriore del maoismo sessantottesco, aveva una profonda ragione.
Come l’aveva chi – ricordo assieme ad alcuni critici una quasi isolata dichiarazione di Gianni Amelio, invitato a esprimersi sul futuro del cinema italiano – volle, con fedeltà, difendere fra i travagli un piacere di scoperta.

Tullio Masoni

Primopiano Marco Bellocchio
1 – Marco Bellocchio. La rabbia, la passione
2 – Da una A di sessant’anni fa a una Z ancora tutta da immaginare…
3 – La contemplazione e il mistero delle immagini
4 – Un uomo, un intellettuale, fedele a se stesso
5 – Regista sul terreno fertile dell’irrisolutezza
6 – “Vecchia Piacenza sei piena di sorprese”
7 – “Dialettica dell’andare e del tornare”