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“Vecchia Piacenza sei piena di sorprese”

“Vecchia Piacenza sei piena di sorprese”

I primi vent’anni di cinema del più famoso concittadino visti da Giulio Cattivelli “Cat”

Dal 1883 la città di Piacenza conta orgogliosamente su di un proprio quotidiano, “Libertà”, componente caratterizzante la vita cittadina. Nel periodo aureo in cui i quotidiani nazionali e territoriali si facevano ancora vanto di nutrire giornalmente una critica cinematografica vigile, competente e prestigiosa con rigoglio di grandi firme, il foglio piacentino potè vantare una delle più accreditate e riconosciute presenze del settore, quella di Giulio Cattivelli (1919-1997), titolare della relativa rubrica presso che per mezzo secolo, dal 1945 al 1994.

Un’autorevolezza, la sua, corroborata, oltre che dalla straordinaria lunghezza del periodo di servizio militante, dalle scelte collaborazioni specializzate nazionali (con Guido Aristarco a “Cinema Nuovo” già dagli anni del quindicinale) e dal ruolo successivamente aggiuntosi, magnificamente esercitato e riconosciuto, di preside di un istituto scolastico cittadino.

Due amici, un collega giornalista e l’ex-sindaco e assessore alla Cultura della città, Mauro Molinaroli e Stefano Pareti, hanno avuto la magnifica idea di raccoglierne le recensioni dedicate al cinema italiano in un ricchissimo volume (Al cinema con Cat, Berti, Piacenza 2006). Dalle cui pagine sono tratte queste essenziali annotazioni attraverso le quali il critico ha seguito in sistematici articoli lunghi e approfonditi, la progressione del regista piacentino di vent’anni più giovane. L’apporto si ferma, col tono per la prima volta perplesso, alla tappa iniziale del cd. “periodo Fagioli”, Diavolo in corpo. Gli ipotetici articoli dedicabili alle tre successive (La visione del sabba, La condanna, Il sogno della farfalla), sebbene ancora riferibili al suo periodo di attività critica, se pur mai eventualmente stesi, non compaiono nella selezione antologica. In quegli anni Cattivelli non fu l’unico bellocchiano in difficoltà: gli sarebbe poi purtroppo venuto a mancare il tempo per ricredersi numerosissime volte. A cominciare dall’occasione di commuoversi certamente allo strepitoso omaggio che, nel 2000, Bellocchio avrebbe tributato alla loro comune città: con lo splendore affettuoso, insieme intimo e rutilante, cosmopolita e campanilista, semplice e stratificato di “…addio del passato…”

[n.l.]

I pugni in tasca

“Vecchia Piacenza, sei piena di sorprese. La nostra città timida o prudente o scontrosa, finora mai toccata dal cinema, ha sfornato di punto in bianco il regista e il film più inquietanti, ‘nuovi’, esplosivi, acclamati dell’attuale stagione. Il consenso degli addetti ai lavori è unanime, senza distinzione di tendenze estetiche e ideologiche: non si ricorda, nel cinema italiano, un esordio altrettanto impetuoso e felice come quello del ventiseienne Marco Bellocchio, ‘autore’ nel senso completo della parola (suoi sono anche il soggetto e la sceneggiatura) di un’opera fabbricata letteralmente in casa, con pochi soldi, la quale conferma tra l’altro una confortante verità: che quando ci sono le idee, la stoffa e il coraggio, l’entità dei mezzi produttivi diventa una questione secondaria. Quattro ci sembrano i segni distintivi che rendono valido e importante I pugni in tasca: il talento, l’originalità, la forza espressiva e, appunto, l’assoluta libertà di concezione e di ispirazione”

(4 febbraio 1966)

La Cina è vicina

“Nei titoli come nei soggetti, Bellocchio dimostra fiuto e tempismo, senso dell’anticipo (direbbero gli sportivi) nell’affrontare temi di attualità, e originalità nel modo di trattarli. Se per ipotesi il film venisse presentato anonimo, basterebbe una sola sequenza per farci capire chi l’ha firmato. Bellocchio insomma è un autore dalla mano già inconfondibile – cosa piuttosto rara e importante – anche quando cambia registro. Sia pure in misura diversa da I pugni in tasca, anche La Cina è vicina è un film familiare e autobiografico, ricco di un potenziale eversivo fino ai limiti dell’autodistruzione: uno sfogo di risentimenti complessi, un regolamento di conti con l’ambiente nativo, il reliquame domestico, le istituzioni e i miti dell’infanzia, della classe e della società cui bene o male appartiene. Tutto questo raccontato con un linguaggio volutamente sciolto, sprezzante in modo persino eccessivo dei convenzionalismi e delle rifiniture spettacolari, ma sempre teso, incisivo e centrato sull’essenziale”

(16 novembre 1967)

Nel nome del padre

“Che sia un altro film autobiografico è fuori di dubbio: bisogna vedere in che senso. Nella sua irripetibile freschezza I pugni in tasca era una confessione liberatoria, un grido di rivolta individuale che anticipava in nuce tutta la tematica della contestazione (poi ripresa e stemperata da una fungaia di imitatori). Nel nome del padre è innanzitutto il frutto di una non breve parentesi di ripensamento, di varie esperienze politiche e culturali e di una maturazione intellettuale e umana che permettono a Bellocchio di ampliare il suo discorso personale con maggiore distacco e controllo critico nei confronti della materia prescelta che è cronologicamente lontana e insieme proiettata verso il futuro. Ma potrà davvero Bellocchio liberarsi definitivamente dei suoi fantasmi, di certe esperienze giovanili che lasciano il segno sulla pelle e ci accompagnano in genere per tutta la vita, pur determinando – proprio per la loro tenacità – furiose reazioni di rigetto? Lo sforzo qui è notevole”

(8 settembre 1972)

Sbatti il mostro in prima pagina

“Ecco il quarto lungometraggio di Bellocchio, meno personale dei tre precedenti, in quanto non pensato né scritto, come di consueto, ma solo diretto dal regista piacentino, chiamato in fase esecutiva. Tuttavia l’unghia di Bellocchio si sente in molti punti della pellicola, e si sente anche la sua precisa e non certo moderata angolazione ideologica nella rielaborazione del copione cui pure ha posto mano un qualificato collaboratore di “Quaderni Piacentini”, Goffredo Fofi. Nell’insieme un film che prende: un film diverso, utile e importante nella misura in cui sa dire a chiare lettere ciò che altri sussurrano ambiguamente a mezza bocca: come il primo piano di un noto uomo politico che verso la fine invade lo schermo quale logico e non romanzesco suggello di tutto il discorso”

(4 novembre 1972)

Marcia trionfale

“Il soggetto Bellocchio l’aveva nel cassetto da un pezzo. Ed era un approdo logico, per l’irriducibile e solitario ribelle che aveva preceduto e preannunciato la stagione della contestazione. Dopo la Famiglia (I pugni in tasca), il piccolo politicantismo (La Cina è vicina), l’educazione della Santa Romana Chiesa (Nel nome del padre), il Quarto Potere (Sbatti il mostro) e gli ospedali psichiatrici (Nessuno o tutti), i suoi umori anarchici non potevano ignorare un altro essenziale pilastro del Sistema, un’altra istituzione “chiusa” che ingabbia, coarta e spersonalizza l’individuo: la vita militare. È senz’altro il primo film italiano che mostra esplicitamente la natura concentrazionaria e alienante, diseducativa e repressiva della vita di caserma, per lo meno quella governata da regolamenti, consuetudini e mentalità che forse soltanto adesso – a quanto pare – cominciano a cambiare”

(19 marzo 1976)

Matti da slegare

“Ossia l’altro cinema, esempio di un cinema diverso, alternativo, di opposizione, chiamatelo come volete; un cinema che di solito stenta a raggiungere il grande pubblico perché è emarginato dai meccanismi del sistema, così come sono emarginati perché ‘diversi’ i suoi protagonisti, handicappati, disadattati, malati mentali. Un film ‘irregolare’ nella matrice produttiva (l’amministrazione provinciale di Parma), nella formula cooperativistica, nel tema e nell’impostazione: che avrebbe come traguardo naturale il teleschermo, ma che la nostra riformata TV ha finora ignorato. Un’opera, infine, che per poter circolare nei normali circuiti ha dovuto letteralmente dimezzarsi. Non è un film scientifico (volutamente non vi figurano medici, neppure esponenti della psichiatria progressista), è invece un film politico e insieme poetico. Grazie a risultati come questi torniamo a scoprire le dimenticate e per molti insospettate risorse del cinema”

(5 giugno 1976)

Salto nel vuoto

“Il cinema italiano sarà in crisi, ma i suoi uomini migliori no. In ormai quindici anni di attività Bellocchio ha saputo conservare piena libertà di espressione attraverso le più diverse ed eccentriche formule produttive e superare l’antinomia privato/politico inserendo nel proprio discorso autobiografico aspetti e problemi cruciali della società italiana. Salto nel vuoto è l’esplorazione di un mondo sommerso, un risalire alle radici aggrovigliate, tenebrose e remote di conflitti, tare, perversioni, tendenze distruttive e lucide follie occultate sotto la toga della rispettabilità e del’autoritaristico usbergo di valori tradizionali. L’evoluzione e la maturità dell’autore si misurano anche sul piano espressivo e stilistico. Se per esempio il linguaggio de I pugni in tasca era convulso, smozzicato, scabro, quello di Salto nel vuoto è fluido, modulato, sinuoso, addirittura virtuosistico. Opera intellettualmente aristocratica, rigorosa e perfettamente bilanciata nell’accordo dei suoi plurimi valori e significati (clinici, sociali, metaforici) è un film persino appassionante per chi sa gustarlo”

(16 aprile 1980)

Gli occhi, la bocca

“È stato più volte osservato che i grandi registi (è ormai solito attribuire l’aggettivo al nostro Bellocchio) fanno sempre più o meno lo stesso film, o meglio sviluppano e arricchiscono un medesimo discorso, raccontano la loro visione del mondo, aggiornata al fluire degli avvenimenti storici. Ora, arrivata la maturità e l’età dei bilanci, mutate anche molte situazioni esterne, Bellocchio accentua e approfondisce il dato autobiografico e torna sui suoi passi per tirare certe somme e per rinnovarsi. Gli occhi la bocca è una rivisitazione de I pugni in tasca e insieme la prima vera storia d’amore del regista piacentino. Anche questo offre un primo impatto sgradevole e freddo, con improvvise esplosioni drammatiche, scatti istericamente irosi, agre risate in falsetto, invenzioni grottesche, giochi infantili; e in più, di nuovo, disperati sensuali abbandoni però, ci sembra, mai completamente liberatori”

(23 marzo 1983)

Enrico IV

“Perché Bellocchio abbia scelto di misurarsi con questo soggetto è abbastanza evidente. Anzitutto lo interessava il tema della follia, che corre come un filo rosso attraverso quasi tutte le sue opere. Per Bellocchio il protagonista di Pirandello è un altro eroe “diverso” ribelle e protestatario, vittima di un mondo falso e conformista, ipocrita, malvagio e vile, che detiene però il potere. Ha condotto sul testo pirandelliano un’operazione fin troppo smitizzante e a tratti addirittura iconoclasta, sfrondandolo di tutti i toni e gli orpelli retorici, aulici e paludati di una cultura ammuffita (ma nel contempo negando e distruggendo ogni radice poeticamente valida del dramma). Tende a trasformare il Pirandello in una commedia grottesca, in cui persino la pugnalata finale diventa quasi parodistica. Gustose trovatine anacronistiche fanno riemergere gli sberleffi striduli e il gusto sempre un po’ goliardico del Bellocchio contestatore e provinciale dei primi film, senza peraltro lasciar intravvedere nuovi sviluppi del suo discorso”

(23 giugno 1984)

Diavolo in corpo

“Bellocchio riprende e sviluppa un suo personale discorso pur riagganciandosi – e non è scommessa da poco – a un autentico capolavoro del passato, il quasi omonimo film del francese Autant-Lara (1947) dall’altrettanto poetico racconto del giovanissimo Raymond Radiguet. Anche se ha trattato le scene di sesso in modo non volgare, alleggerendole al massimo, Bellocchio rischia oggettivamente che il richiamo scandalistico del film contribuisca a intorbidirne i due aspetti più importanti: la riaffermazione anarchica e romantica delle eterne ragioni del cuore e la condanna dell’ambigua politica del “pentitismo”. Beninteso varie cose nel film sono da discutere, a cominciare dalla dedica d’apertura a Massimo Fagioli (primo psicanalista nella storia del cinema fregiato di tale omaggio) per finire alla sgradevole e dissonante caratterizzazione dei due genitori – il padre di Andrea e la madre di Giacomo – ultimi bersagli dell’antica rabbia bellocchiana verso i cardini della famiglia”

(22 maggio 1986)

Primopiano Marco Bellocchio
1 – Marco Bellocchio. La rabbia, la passione
2 – Da una A di sessant’anni fa a una Z ancora tutta da immaginare…
3 – La contemplazione e il mistero delle immagini
4 – Un uomo, un intellettuale, fedele a se stesso
5 – Regista sul terreno fertile dell’irrisolutezza
6 – “Vecchia Piacenza sei piena di sorprese”
7 – “Dialettica dell’andare e del tornare”