Vino nelle anfore: si fa così da 5000 anni
Sui colli tortonesi abbiamo incontrato Daniele Ricci, agricoltore, viticoltore, produttore di vini naturali in un ambiente che, piano piano, sta ritornando incontaminato. Con tanto impegno e passione.
C’è un’isola, sui Colli Tortonesi che sembra avere tutte le caratteristiche della felice isola che non c’è. Immaginiamo un luogo dove convivono in perfetta simbiosi alberi da frutto, alcuni di varietà antiche, con ortaggi, grani, viti, un bosco al cui limitare, nelle stagioni delle acque abbondanti, scorre un torrente. Un luogo in cui se alzi lo sguardo sulle imminenti alture ti capita di vedere caprioli in libertà e se lo abbassi sui campi inciampa nel guizzo di lepri e conigli selvatici, impronte di cinghiali e altri ungulati. È davvero un luogo bucolico, idilliaco, che suggerirebbe pastorali a un moderno Beethoven, eppure frutto di una ferrea volontà, di una caparbietà senza concessioni. L’incontro con Daniele Ricci, nel suo habitat, è spiazzante. Parla, senza falsi pudori, di sentimenti. E, ascoltandolo, ci si accorge di quanto sia stato proprio il sentimento della natura a condurlo nelle scelte dell’agricoltura biologica e oltre, di quanto sia stato il sentimento della famiglia a suggerirgli la via, di quanto sia stato il rispetto per il lavoro di chi era venuto prima, indiscusso consigliere di vita e di lavoro.Erano sei-sette ettari, in località San Leto di Costa Vescovato, acquistati dai nonni nel 1929 e vitati negli anni ’50. Ora l’azienda si estende su venti ettari, di cui a vite sono dieci-dodici, espressione della territorialità: Timorasso, Barbera, Croatina, Nebbiolo, per quaranta-cinquanta mila bottiglie di cui, il settanta per cento, è venduto all’estero. Questi sono i numeri, sintesi di un breve rosario di nomi che hanno fatto la differenza. Carlo, il nonno, Elso, il papà, Mattia, il figlio che crede in quest’avventura e studia enologia, Walter Massa, il mentore che agli inizi degli anni Novanta puntò sulla rinascita del Timorasso e coinvolse, chi più chi meno convinto, gli altri sognatori della valle, Josko Gravner, il friulano più empatico e naturalista di sempre, incontrato una ventina d’anni fa e con il quale Carlo Daniele condivise, da subito, l’indiscussa integrità, il senso d’appartenenza alla terra, come piccolo appezzamento e come pianeta, il rispetto, l’arte di sapere attendere. Pochi nomi che si traducono in sentimenti, come detto, senza indulgere nel sentimentalismo. Sentimenti per legami forti che nutrono e si trasformano in vini “naturali” per vocazione, certamente non per moda.
E dopo i numeri e i nomi di Ricci nella sua amena San Leto, passiamo ai verbi. Rispettare: ogni pianta, ogni vita, ogni stagione. Ascoltare: le malinconie e le utopie dell’anima, ogni vento, ogni ansia o contentezza, i suggerimenti di chi si stima, i commenti degli avventori. Aspettare: e questa è l’arte più anacronistica. Aspettare che i figli crescano e continuino il nostro operato, aspettare la giusta maturazione dei frutti, aspettare le fasi della luna, aspettare le lunghe macerazioni sulle bucce, aspettare che le fermentazioni avvengano senza aiuti, aspettare anche anni prima di mettere in commercio le bottiglie… È dall’insieme di questi nomi, e verbi, e numeri, combinati in maniera personalissima, che nascono i vini insoliti quanto apprezzati di Ricci. Produttore anarchico? Controcorrente? Riteniamo, dopo aver trascorso un pomeriggio nella sua cascina, e averlo ascoltato, aver annusato, averlo spiato, che trattasi, molto più semplicemente, di un artigiano sensibile e innamorato. Il suo lavoro potrebbe essere declinato, in questo suo racconto dalla trama affascinante, in “aiutare il vino a farsi”, che è il massimo del rispetto, il massimo della fede possibile nella magia della natura.
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