Vivere d’Appennino
L’Appennino che più amiamo e che abbiamo imparato a conoscere, passo dopo passo, escursione dopo escursione. Lo presentano autori diversi, nello sfumare delle stagioni, con fiori o foglie secche, con vedute mozzafiato, con memorie indelebili. Eppure…
Una nuova sfida s’affaccia nelle coscienze e nelle interpretazioni dei tempi: l’Appennino non più, non solo, come palestra di sport e di emozioni, ma come casa, ambiente possibile dove ritornare a vivere. È un disquisire convinto, quello con cui Matteo Marino vuole trascinare il lettore a immaginare nuove prospettive di vita e di rivalutazione ambientale dei monti a noi più prossimi. Un’anticipazione critica e visionaria delle descrizioni che, altri autori, propongono con penna spesso innamorata e sguardo pieno di meraviglia.
Perché è vero che, se i sentieri sono sempre gli stessi, diverse sono le angolazioni dalle quali si affrontano, i venti che li percorrono, gli umori del sottobosco nelle diverse stagioni.
Questi sono i mesi in cui fervono le escursioni con le ciaspole, le racchette in legno di antica memoria che, dopo un lifting estetico e tecnologico dettato dai tempi moderni, sono state ribattezzate con un neologismo di derivazione incerta; se ne organizzano di diversa lunghezza e diversa difficoltà con l’unico comune denominatore della piacevolezza dell’esperienza.
Non da meno sono le camminate primaverili o estive, alla riscoperta di fioriture straordinarie, o per peripezie in mountain bike che consentono intenso allenamento, incontri, vedute, soste refrigeranti.
Tuttavia, calpestare l’Appennino significa, molto spesso, imbattersi in tracce di un’umanità neanche tanto lontana nel tempo che traeva dal bosco approvvigionamenti vitali. Emblematica ne è l’espressione di Maurizio Maggiani, “dall’Alpe si vede l’Universo, forse anche Dio, ma dall’Appennino si vedono gli uomini, e si vede il mare”. Emblematici ne furono gli scarponi che trovammo appesi su un tronco sul sentiero per l’Antola, segno di un addio, chissà quanto doloroso.
Le mulattiere sopravvissute ai secoli, cantano con voce di pietra cui rispondono muretti a secco e resti di ghiacciaie, testimoni taciti del gran fermento d’uomini e bestie che si avvicendavano nelle stagioni. Tra le molte attività, di cui restano testimonianze tangibili, ce n’è una che rimane viva solo nella memoria, nei racconti, e in qualche sparuto tentativo di ripresentarla, perché non vada del tutto persa. È la carbonaia. Generazioni di boscaioli, fino alla metà del Novecento, si cimentavano in quella che oggi definiremmo un’arte, necessaria di tanta abilità manuale e di calcolo. È possibile ancora trovare qualche “piazza”, testimone della diffusa produzione di carbone. Ne abbiamo individuato in Valle Staffora, in Val Brevenna e in val Trebbia, ma giungono racconti della loro presenza in Toscana e giù, giù, lungo tutta la dorsale. Si tentano ricostruzioni dimostrative, perché la memoria non ne vada perduta.
Sono stati recuperati formaggi, mele, suoni, strumenti musicali, nenie e canti che sono racconti. Non è forse molto, il passo è lento, ma da qualche parte occorreva incominciare.
Oltre n. 174 è nelle edicole delle province di Pavia e Alessandria.