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Voghera nel lockdown

Voghera nel lockdown

Matteo Colombo, Direttore del settimanale diocesano di Tortona “Il Popolo”, dice: “All’inizio ho avuto qualche difficoltà a scrivere le didascalie di queste foto. Non c’erano persone, non c’erano gesti, non c’erano parole.

 

Ecco: non c’erano parole”. Se lo dice lui, che è giornalista, una delle migliori penne, ed ha un’acuta sensibilità culturale, questa è una verità.
L’impressione descritta da Colombo è infatti la stessa che ognuno può provare nel vedere la mostra fotografica “Voghera nel lockdown”.: si resta senza parole perché troppe sarebbero quelle da dire e recenti, profondi e sofferti i silenzi dai quali scaturiscono.

La mostra propone settanta scatti di Fabio Draghi. Sessanta sono in bianco e nero, dieci sono a colori.
Quelli in bianco e nero sono dedicati alla Voghera dello scorso aprile, una città abitata e deserta, viva e assente, pulsante e ferma. Una città ossimoro, come le altre città, i paesi, le case d’Italia e di gran parte del mondo nella primavera ultima scorsa, paradossale e tragica.
Gli scatti a colori hanno tutti per protagonisti gli uomini e le donne della Croce Rossa, persone che in quel coprifuoco difensivo si sono mosse ventiquattro ore al giorno, a sirene spiegate, per soccorrere, trasportare, salvare. A loro è dedicata la mostra, così come il ricavato dalla vendita delle foto.

Draghi ha percorso Voghera in orari diversi, ma le immagini della mostra non hanno orologio: non c’è il traffico degli uffici, del mezzogiorno, davanti alle scuole o davanti alla stazione. Il traffico non c’è. C’è un tempo sospeso, che soltanto le luci e le ombre con la loro lunghezza possono tradurre in mattina, pomeriggio o imbrunire, un’alba che si confonde con un tramonto.
Verrebbe facile parlare di un non – tempo per queste foto tecnicamente ineccepibili, drammatiche per il vuoto di azioni.
In realtà un tempo c’è stato e appartiene a ognuno di noi. E’ stato quello visto dalla finestra, carpito da un balcone, il tempo degli edifici, delle piazze, della strade, dei monumenti, dei viali, dei giardini, tutti in un’attesa sospesa.

Nelle immagini di Draghi scorrono luoghi famigliari che risultano non immediatamente riconoscibili tanto si presentano paradossali nei loro vuoti, diventati improvvisamente imponenti. Le piazze, in particolare, e le strade evocano paesaggi da Day After, pur essendo immerse in un “giorno prima” d’incertezza.
“Non c’erano parole”, ha detto Colombo.
Non c’erano fra le persone distanziate in fila davanti al supermercato, nella donna che pronuncia senza labbra la sua preghiera da dentro la mascherina. Non c’erano le parole gioiose dei bambini a muovere le altalene che Draghi ha fissato nel suo scatto, immobili e desolanti. E’ una raccolta preziosa, quella di Draghi, che oggi testimonia un passato molto prossimo, condizionante sul presente, e che in futuro remoto sarà documentazione storica. E’ anche un messaggio, non esplicito, a non rimuovere troppo in fretta dalla memoria quei giorni di isolamento, perché il rischio non è completamente annullato e sospesi, sebbene con speranze ed energie più forti, li siamo ancora.

Matteo Colombo ha avuto un’idea per le didascalie delle foto, un’idea che è racconto, interpretazione possibile, processo verosimile. L’idea è questa: tre personaggi, un anziano, un giovane adulto e una bambina come voci narranti. I loro pensieri, le loro emozioni, il loro vivere la quotidianità stravolta del lockdown accompagnano le foto. L’anziano non ha nome, è burbero e beve, troppo. La sera precedente il lockdown va al bar e s’arrabbia con gli altri anziani, alza il gomito e formula un anatema: che possano scomparire tutti. Di fatto, il giorno dopo tutti scompaiono, rinchiusi nelle proprie case. Non scompare, però, la sua solitudine, convivente difficile e crudele, non una novità, ma certamente una compagnia drammaticamente fedele. L’anziano non ha nome, lo chiamano “il vecchio” e l’ultimo dei suoi racconti o, meglio, delle didascalie, nemmeno gli appartiene. E’ quello fatto dai conoscenti del bar, un accenno veloce, fra indifferenza e noncuranza, passando a parlare d’altro.
La bambina si chiama Alice e, come il personaggio di Lewis Carroll, si ritrova in un mondo delle meraviglie al contrario. Non ci sono Bianconigli, Regine di Cuori e funghi magici nella Voghera di aprile: nella Voghera di aprile non c’è più nessuno. Ci sono mamma e papà che non si vestono al mattino per andare al lavoro, ma restano in pigiama. Non c’è scuola, non ci sono gli amici dei giardinetti. C’è, però, una gioco nuovo, così le spiega il papà, una sorta di nascondino globale che prima o poi finirà, qualcuno urlerà “Tana libera tutti!” e si potrà uscire.
Poi c’è Marco, al secolo Mark, che ha trent’anni, fa il meccanico, ma sogna di diventare un campione di Formula Uno. Lui coi motori ci sa fare, sa correre, quanto gli piacerebbe correre in quelle strade deserte. Il finale per i tre personaggi è comune: nessuno torna a essere quello di prima, i vuoti e i silenzi hanno agito, toccato, cambiato.

Quello di Matteo Colombo è davvero un racconto da leggere frase per frase, foto per foto, poiché ognuna delle “didascalie” si rivela un punto di vista, spesso sorprendente, sempre condivisibile, perfettamente stimolato dall’immagine esposta. E’ un racconto poetico, che spiega un’intimità obbligata e che sa raggiungere sintesi lapidarie, quali la descrizione del cimitero “troppo chiuso per i vivi perché troppo aperto per i morti”.
Sono due produzioni culturali importanti, questa mostra di Fabio Draghi e queste didascalie narrate di Matteo Colombo, e non a caso “Il Popolo” è media partner dell’esposizione densa di valori e immagini che parlano nel loro silenzio evocativo. I colori delle foto della Croce Rossa sono il contraltare cromatico di chi non ha avuto il tempo di fermarsi e ha scelto di non farlo per un impegno profondo e tenace verso gli altri. Un’altra Voghera, questa di Fabio Draghi, molto più di una mostra fotografica.

Cinzia Montagna

Voghera nel lockdown

Mostra fotografica di Fabio Draghi
realizzata con la collaborazione di Guido Colla
Testi di Matteo Colombo

Voghera, Sala Luisa Pagano
dal 3 al 18 ottobre 2020
martedì, venerdì, sabato e domenica
9-12 15,30-19
ingresso libero